Quando sono andata in edicola per comprare un settimanale e ho visto una mia coetanea afroitaliana irritare il proprietario con la sua sola presenza, ho pensato che stiamo vivendo in una società sempre più inquietante. In una società di violenze, di discriminazioni, di pericoli. In una società di uomini-barbagianni, che aggrediscono i loro simili mentre lanciano urla acutissime, e che non si vergognano di manifestare la loro natura misogina e intollerante.

La copertina del volume

E no, non è una metafora mia, ma il risultato di una lettura che mi è capitata per le mani in questi giorni: La società degli uomini-barbagianni di Emanuele Kraushaar, uno dei primi romanzi con cui le Edizioni Tlon tornano a occuparsi di narrativa attraverso la collana Finzioni. Un omaggio alle Finzioni di Jorge Luis Borges, e una promessa rivolta a chi, di finzioni elaborate, surreali e provocatorie, ha sempre desiderio.

«La società degli uomini-barbagianni è organizzata secondo un sistema gerarchico molto rigido. Alla punta della piramide c’è il Capo degli uomini-barbagianni, un essere enorme, grande quasi il doppio di un normale uomo-barbagianni. Per arrivare ai vertici della società ha ucciso e divorato decine di suoi simili. La sua superiorità non è data solo dalla grandezza, ma dalla maggiore velocità con cui riesce a colpire i nemici. Questa abilità, che è comunque una sua dote naturale, è stata rafforzata negli anni grazie a ferrei allenamenti ed esercizi con i tronchi e con le prede».

Ecco cosa legge, a circa un terzo dell’opera, il protagonista (di nome A) in merito a questa bizzarra società ibrida. Ecco cosa ho pensato di avere appena visto verificarsi nella res publica in cui abito, alla fine del mese scorso, al di là della storia di carta a cui mi stavo dedicando.

E così, mentre mi appassionavo alla vicenda di A e lo seguivo, confuso e preoccupato per com’era, bisognoso di affetto e al tempo stesso incapace di garantire la sua protezione alle persone intorno a sé, ho immaginato di ritrovarmi al bar con donne dal becco lungo e uomini dagli artigli pericolosi, pronti a trascinarmi in una distopia feroce e sempre meno clemente. Sono andata a prendere un caffè sotto casa e mi sono guardata intorno con aria furtiva, spaventata.

Poi, si capisce, il romanzo l’ho concluso. Il ricordo di certi pennuti è sfumato, un po’ come l’angoscia per prove di rapacità a cui talvolta sono costretta ad assistere che si è trasformata di giorno in giorno in rassegnazione, in necessità di reagire, in mobilitazione. Eppure, se sono ancora qui a parlarne, è evidente che La società degli uomini-barbagianni abbia lasciato il segno, che la sua finzione non sia stata poi troppo innocua.

Ha aperto uno spiraglio, Kraushaar. Una possibilità fra mille di come potrebbe evolversi il nostro mondo – o involversi, a seconda dei punti di vista. Ci è riuscito con delicatezza, all’interno di un doppio gioco narrativo, però di fatto ha scelto una strada densa di assertività, di fotogrammi che restano impressi nella mente, di suggestioni che non possono certo passare inosservate. E se è vero che ha proiettato una luce sinistra, ma comunque solo ipotetica, sul nostro futuro, è anche vero che la sua ombra si riverbera tutta nel presente che stiamo già vivendo, nella colazione che paghiamo già col bancomat a un cassiere scorbutico.

Un merito non da poco, per uno scrittore che parla di finzioni da scongiurare e di uccelli da tenere alla larga. Soprattutto perché ancora oggi ho l’impressione che l’impiegata comunale a cui chiedo aiuto per rinnovare la carta d’identità abbia i denti più affilati, le mani più curve. E perché, se è così, significa che grazie a Kraushaar, sto riuscendo a non abbassare la guardia.

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