«Giace de la Sicania al golfo avanti un’isoletta che a Plemmirio ondoso è posta incontro, e dagli antichi è detta per nome Ortigia. A quest’isola è fama che per vie sotto al mare il greco Alfeo vien da Doride intatto, infin d’Arcadia per bocca d’Aretusa a mescolarsi con l’onde di Sicilia. E qui del loco venerammo i gran numi; indi varcammo del paludoso Eloro i campi opimi». Compare così, per la prima volta, con la sua inconfondibile e poetica sinuosità, la Sicilia tra le pagine dell’Eneide di Virgilio. È Enea in persona, nel corso del suo lungo racconto alla corte di Didone, a ripercorrerne l’emozionante avvistamento e la connessione con alcuni degli eventi decisivi che lo condurranno a realizzare la missione per la quale il Fato lo ha prescelto: la gloriosa fondazione di Roma. Se, infatti, sono ben note le traversie isolane di Ulisse nel suo annoso tentativo di rientrare in patria dopo la guerra di Troia, non altrettanto rinomate sono quelle dell’eroe troiano, il quale, tuttavia, tra storia e leggenda, pare aver lasciato tracce ben più visibili e durature del suo passaggio. Un passaggio che ancora oggi non smette di affascinare lettori e avventori, tanto da essersi meritato un prestigioso riconoscimento internazionale: la Sicilia è tra le cinque regioni italiane a far parte di un vasto itinerario – noto, appunto, come Rotta di Enea – che comprende anche Turchia, Grecia, Albania e Tunisia e che è stato riconosciuto dall’Unione Europea come di certificato interesse culturale. Nella parabola siciliana del progenitore di Romolo e Remo, del resto, si fondono sapientemente sacro e profano, dramma e speranza, fine e rinascita, passato, presente e futuro. Un viaggio che equivale ad una vita intera, insomma. E noi siciliani siamo tra i pochi fortunati ad averne testimonianza diretta.

La stele di Anchise

Ma quali sono, esattamente, i luoghi toccati dalla spedizione troiana? Ancora una volta, lo apprendiamo dal monologo di Enea, che, nel III libro, prende le mosse dal momento successivo in cui, insieme con i compagni, è riuscito a sottrarsi alle perigliose spire di Scilla e Cariddi e alla furia di Polifemo: «Rademmo di Pachino i sassi alpestri, scoprimmo Camarina, e ’l fato udimmo che mal per lei fora il suo stagno asciutto. La pianura passammo de’ Geloi, di cui Gela è la terra e Gela il fiume. Molto da lunge il gran monte Agragante vedemmo, e le sue torri e le sue spiagge che di razze fur già madri famose. Col vento stesso indietro ne lasciammo la palmosa Seline; e ‘n su la punta di Lillibeo giunti, tosto girammo le sue cieche seccagne, e il porto alfine del mal veduto Drepano afferrammo». Nell’estremità occidentale dell’isola, nel territorio di Marsala prima e poi dell’odierna Trapani, si verificò il primo, fondamentale spartiacque: Anchise, padre di Enea affaticato dalla immane traversata e fiaccato dagli anni, si spense a Pizzolungo, frazione di Erice presso la quale, ancora oggi, giganteggia maestosa una stele a lui intitolata ad inizio ‘900. A dargli onorevole sepoltura, oltre all’amato figlio, fu Aceste, re della cittadina, anch’egli di sangue troiano e fedele amico del figlio di Afrodite, al quale, poco dopo, avrebbe offerto nuovamente ospitalità. Smaltita la delusione per la perdita del genitore e abbandonata l’amata Didone per rispondere al rimprovero degli dèi, Enea dovette infatti fronteggiare una terribile tempesta, per ripararsi dalla quale fu costretto ad approdare per la seconda volte sulle coste di Drepano. «E qual più grata, o più comoda riva, o più sicura aver mai ponno le mie stanche navi, di quella che ne serba il caro Aceste, e l’ossa accoglie del buon padre mio!». Leggenda vuole che a questa circostanza – ovvero i giochi in memoria di Anchise ad un anno dalla sua scomparsa accompagnati dalla costruzione di un tempio consacrato ad Afrodite presso Erice, dove oggi si erge il castello normanno – si debba anche la fondazione della città di Segesta, nata come rifugio e dimora di donne, anziani e compagni stanchi o impossibilitati a proseguire il viaggio. L’ultimo gesto dell’avventura siciliana di Enea: in maniera del tutto speculare a quanto Romolo avrebbe fatto con il Pomerio romano, l’eroe ne circoscrisse i confini e affidò proprio ad Aceste il compito di istituirne le leggi.

Il castello normanni di Erice, costruito sulle rovine del Tempio di Venere

Poi, inesorabilmente, salpò. Senza più guardarsi indietro. Lasciando alle spalle sofferenze e nostalgie in nome di un destino già scolpito. Ma l’eredità culturale di questo genere di storie, a prescindere da quanto siano effettivamente attendibili dal punto di vista storiografico, risiede nell’eredità che lasciano a disposizione dei contemporanei. Spettatori di una bellezza impareggiabile che si fa presente allo sguardo e non solo alla memoria. Viandanti privilegiati sulle strade del grande mito. Viaggiatori, a nostra volta, sulle orme di Enea. Vogliosi di rifondare continuamente la nostra identità e di sentirci partecipi di qualcosa di grande. Qualcosa da custodire con religiosa cura.

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