A volte, il segreto per spiccare il volo sta nel saper rimanere saldamente ancorato a terra. Nel coltivare e difendere strenuamente la dolcezza dell’abitudine, la pregiata cornice del passato in cui scegliamo di incastonare i ricordi. Nel rimanere fedeli a sé stessi, alle peculiarità fondative del nostro essere, anche quando le circostanze, spingendoci lontano da esse, rischiano di fiaccare la nostra resistenza. È la storia di chi si avventura per mare alla conquista dell’ignoto; la storia di quei viaggiatori che già nell’andare sognano il percorso a ritroso; la storia degli emigranti che mettono in valigia pezzettini di casa da ricomporre chissà dove e chissà quando. La storia, insomma, di tutti coloro che, approdati in vicoli sconosciuti, si sforzano di ravvisarvi qualcosa di familiare, il calore di una scintilla antica, quasi genetica. Capita spesso, in effetti, che quel bagliore abbia l’accento della lingua natia, l’inflessione inconfondibile di un discorso nuovo che, tuttavia, appare sentito già mille volte. Che nel sollevarsi chirurgico di un labbro, nel puntuale accompagnamento di un gesto eloquente, si annulli ogni latitudine. Come se il mondo si fosse scosso, rigirato su sé stesso, travestito da qualcosa di inedito. Qualcosa in cui la lontananza, la nostalgia, diventano incredibilmente sinonimo di presenza. Vincenzo De Simone, raffinato poeta ed intellettuale originario di Villarosa, nell’ennese, lo ha provato sulla propria pelle. Emigrato a Milano agli inizi del ‘900, seppe infatti costruire una folgorante carriera realizzando componimenti per lo più dialettali, che oltretutto non mancavano di descrivere con dovizia di particolare i costumi del suo paese. Fu, a tutti gli effetti, un ambasciatore delle nostre fondamenta linguistiche: ma questo non ne limitò la fama, né la circolazione. Anzi: la sua specificità lo proiettò, paradossalmente, agli onori delle cronache. In una dimensione di universalità che gli sarebbe valsa straordinari riconoscimenti.

Nella capitale lombarda, del resto, De Simone si affermò presto come un’istituzione culturale e sociale. La sua dimora, situata in Piazzale Argentina, divenne un ritrovo esclusivo per l’intellighenzia della città meneghina, in particolar modo per i tanti siciliani che vi risiedevano. Nei suoi versi malinconici e a tratti incantati, in cui l’isola veniva vividamente tratteggiata nei suoi odori, nei suoi paesaggi e nei suoi riti co ancestrali da scandire il tempo, i suoi sodali respiravano l’anima degli affetti abbandonati, ma anche la sinuosità di una parlata che, per forza di cose, si erano progressivamente disabituati ad adoperare. Quasi come se in quel dialetto pulsasse una vita parallela, sganciata dalle dinamiche della contingenza, eterea nel suo essere simbolo di passato e di futuro. Tanto è vero che persino il simbolista francese Armand Godoy non resistette al suo fascino, impegnandosi in un’opera di traduzione che, da quel momento, consegnò con successo il nostro conterraneo anche al canone transalpino. Non poteva essere altrimenti. Perché in quella concezione di parlata familiare, l’autore di Villarosa riusciva a condensare l’intera storia dell’uomo, i suoi crucci e le sue aspirazioni, la sua carnalità e la sua spiritualità. Come ben dimostra la sua poesia manifesto: «Lu sai pirchì iu l’amu lu dialettu / la matri lingua di lu me paisi? / Pirchì mi la nzignaru senza spisi / e senza sforzu di lu me ntillettu; / pirchì non ci nni levu e non ci nni mettu, / ca lu so meli, cu’ fu, ci lu misi; / pirchì è onesta, tennira e curtisi / e quannu canta attenta a lu me pettu. / L’amu pirchì ci sentu dintra la vuci / di tutti li me’ nanni e li nannavi / di tutti li me’ vivi e li me’ morti; / l’amu pirchi’ mi fa gridari forti: / terra fistanti mia, cori me duci!”». Sembra quasi di sentirle, quelle nenie stordenti che colorano l’infanzia di ingenuità. Sembra quasi di sentirli, i sussurri di chi non c’è più. Il canto ininterrotto della lingua che li riporta momentaneamente tra i vivi. È la lingua che plasma il nostro immaginario. Che congiunge gli eventi e dà loro senso. Che conferisce un’identità riconoscibile al nostro agire.

De Simone morì nel 1942. Fu seppellito a Catania, la città in cui aveva compiuto i suoi studi più importanti. Dovette aspettare il 2016 per essere finalmente, e definitivamente, riportato a Villarosa. Dopo tanto peregrinare, dopo tanto agognare, l’amore per la sua, per la nostra terra, è riuscito a riportarlo a casa.

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