Metti una fredda giornata d’inverno, una tazza di tè a rincuorarti e la voglia di dedicarti a un’attività diversa dal solito. Metti che, per esempio, voglia sentirti trasportare in una storia misteriosa, in un puzzle tutto da decifrare, in un’avventura che ti permetta di giocare con le parole stimolando allo stesso tempo la tua curiosità.

Se La mascella di Caino non è stato creato apposta per una situazione come questa, non saprei proprio dire per quale altro motivo uno dei più grandi esperti di enigmistica del XX secolo si sarebbe dovuto lambiccare tanto il cervello per metterci in difficoltà con il suo ormai celebre rompicapo letterario.

Parliamo di Torquemada, il cui vero nome era Edward Powys Mathers, un uomo che da solo è riuscito a inventare un rebus strutturato come un romanzo giallo: c’è un’indagine, ci sono sei assassini e altrettante vittime, insieme a persone che scompaiano o che cercano di aiutarsi a vicenda, proprio come in una classica storia alla Sherlock Holmes. Peccato solo che, a differenza dei libri di Arthur Conan Doyle di Agatha Christie, qui il primo caso da risolvere riguarda l’ordine in cui vanno lette le singole pagine.

Perché, sì, La mascella di Caino è un romanzo stampato tutto alla rinfusa, in cui non sappiamo quale sia l’ultimo capitolo, dove cominci il primo, come si debbano collegare tra loro dialoghi, descrizioni, pagine di diario… Un bel guazzabuglio, insomma, che a quanto pare già da tempo ha spopolato su TikTok e ha spinto tante case editrici intorno al mondo a ripubblicare l’opera, a tradurla, a farla arrivare fino a noi in un’edizione Mondadori curata da un intero collettivo di esperti linguisti.

Fino a qualche mese fa, c’era perfino in palio un premio per chi fosse riuscito a indicare l’ordine esatto di lettura e a dare un paio di indicazioni sul suo ragionamento, visto che il libro è pieno zeppo di giochi di parole, citazioni e riferimenti che rendono l’impresa ancora più ardua. Io, l’anno scorso, ci ho provato: ho comprato una copia del rebus e ho ritagliato a una a una le cento pagine che lo compongono, a metà fra il turbamento per averlo appena ridotto a brandelli e l’emozione di cimentarmi con questa sfida.

Ho accoppiato fra loro due o tre facciate, dopodiché – per adesso – mi sono fermata. Di tanto in tanto provo a fare un passo avanti, a ipotizzare nuovi collegamenti fra personaggi che ormai mi suonano familiari e antagonisti dal ruolo più ambiguo, e se c’è un momento in cui provo sempre l’istinto di tornare a fare congetture è proprio quando fuori piove, c’è buio e il mondo intorno ha i contorni sempre più sfumati.

Perché, per quanto complesso possa sembrare arrivare fino alla fine, è un percorso che non perde mai il suo fascino, ricco di deviazioni e di idee, di ipotesi e di verifiche attente. È un incoraggiamento a non restare in superficie, a esplorare la realtà in tutte le sue sfaccettature, a volere andare a fondo ad ogni costo perfino quando pensiamo di poterci finalmente fidare delle apparenze.

Peraltro, stando a quanto ha rivelato all’epoca lo stesso Torquemada, esiste una e una sola soluzione sensata. Niente trucchi, niente inganni. Io sono partita dalle pagine contenenti delle date o dei componimenti in versi, per poi cercare di capire se a parlare era sempre lo stesso narratore oppure uno diverso. E, se dal 1934 a oggi sono state solo quattro le persone in grado di risolvere l’enigma, di certo non significa che noi altri abbiamo di che scoraggiarci.

Al contrario, come diceva Jean Baudrillard, “Se tutti gli enigmi sono risolti, le stelle si spengono”. Il segreto è tenerne accesa almeno una, e lasciare che ci continui a fare compagnia quando ne abbiamo più bisogno.

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