Vi siete mai chiesti quale sarebbe, oggi, il volto dell’Europa se nel 1529 gli austriaci non avessero fermato alle porte di Vienna l’avanzata dell’Impero Ottomano guidato da Solimano il Magnifico? Oppure, come sarebbe cambiato il mondo se Napoleone non fosse stato sconfitto a Waterloo? O ancora – uno scenario che ancora oggi fa capolino di tanto in tanto tra cinema e televisione – in che mondo vivremmo se il nazismo fosse uscito vincitore dalla Seconda guerra mondiale? Qualche anno fa lo storico americano Robert Cowley, in un libro dal titolo eloquente, La storia fatta con i se, ha raccolto questi e molti altri affascinanti interrogativi relativi agli eventi cruciali che hanno scandito ogni epoca. Un esercizio intellettuale curioso, per quanto, inevitabilmente, fine a sé stesso, eppure decisamente utile per avere contezza di quanto ciò che viviamo oggi sia, talvolta, il frutto di allineamenti astrali irripetibili, di coincidenze più o meno prolifiche, di gesti o addirittura di frasi pronunciate in un istante specifico piuttosto che in un altro. Far rientrare la Sicilia in questo gioco temporale dai risvolti sorprendenti sarebbe tutt’altro che complesso: numerosi, infatti, sono i casi di trasformazioni incompiute sul più bello, di esiti nefasti che potevano essere evitati sull’orlo del loro accadimento, di passaggi di consegne caricati di speranze quasi millenaristiche poi rivelatisi inconcludenti. Tuttavia, in questo mare di possibilità inesplorate, di rimorsi che ancora lasciano cicatrici ben visibili, una particolare combinazione di eventi sembra svettare sulle altre. Una combinazione che ha un nome e un cognome ben preciso: Domenico Caracciolo, Viceré di Sicilia dal 1781 al 1786. Nella sua parabola politica fulgente e travagliata al tempo stesso si condensa, probabilmente, il destino di un’intera isola, nonché le sue storiche arretratezze.

Fu Leonardo Sciascia, in un’intervista rilasciata alla Rai a proposito del suo libro La corda pazza, a tesserne le lodi e a tratteggiarne il ritratto di riformatore illuminato: «Se in Sicilia la classe dirigente avesse più consapevolmente assecondato l’opera di Caracciolo, la Sicilia oggi non sarebbe in queste condizioni. Invece sia la classe nobiliare sia quella borghese larvaticamente esistente lo hanno avversato fieramente e in cinque anni gli hanno impedito di fare la minima cosa risolutiva. È mancata, insomma, l’efficienza del dispotismo illuminato». E, in effetti, il progetto politico del Viceré apparve sin da subito piuttosto ambizioso. Deputato a presiedere l’isola dopo un’esperienza parigina che lo aveva messo in contatto con gli ambienti più vicini all’Illuminismo, Caracciolo si propose immediatamente di scardinare privilegi di lungo corso, di ammodernare le infrastrutture siciliane e di combattere uno dei retaggi più insensati e crudeli della dominazione spagnola: il Tribunale dell’Inquisizione. Fu questo, senza dubbio, il provvedimento simbolo della sua amministrazione: non soltanto per il valore altamente simbolico di un atto così deciso e così in controtendenza, ma anche perché, spalleggiato dal vescovo Salvatore Ventimiglia, fu, alla resa dei conti, l’unica vera rivoluzione che fu in grado di attuare. A causa delle resistenze magistralmente messe in luce da Sciascia, l’impulso dato da Caracciolo finì ben presto per arrestarsi. E poco importò ai tronfi baroni isolani che il Viceré si fosse incaricato personalmente di istituire una strada di collegamento tra Messina e Palermo e che, spinto dal suo spirito libertario e affamato di conoscenza, si fosse premurato di dare vita a una cattedra di astronomia e ad un rigoglioso orto botanico. Le sue speranze di radicale cambiamento si infransero nel tentativo di rimettere ordine nelle questioni feudali dell’isola. Un gomitolo inestricabile e secolare di privilegi che non cedette alla proposta di una riforma catastale che ristabilisse scientificamente i confini dei vari possessi e dei vari titoli.

Caracciolo lasciò la Sicilia nel 1786 nell’indifferenza quasi generale, appesantito nel cuore da un’amarezza con la quale, forse, non aveva messo in conto di dover combattere. Di lui Isidoro di Lumia scrisse che «faticava a capire come mai i lumi tardassero tanto a spandersi in Sicilia, e tardasse tanto a sorgervi un popolo di Enciclopedisti». Quella che avrebbe dovuto essere una scia di risvegli finì per essere una scia di rimpianti. Una scia di “se”, purtroppo, senza risposta.

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