Qualche giorno fa mi sono imbattuta nella notizia dell’acquisto da parte della Regione Siciliana della dimora in cui Giovanni Pascoli spese quattro anni della sua vita mentre insegnava a Messina. Vi sorgerà una casa museo, un altro luogo della memoria che andrà ad aggiungersi a quelli, piuttosto numerosi, dedicati agli scrittori nati (o vissuti) nell’isola. Ma, specialmente in Sicilia, visitare le case di questi uomini illustri è sempre l’esperienza indimenticabile che promette di essere? E, se non lo è, come potrebbe diventarlo?

Quando ero in terza elementare, durante una visita guidata la nostra classe ha raggiunto la casa museo di Vincenzo Bellini, a Catania. Sono passati tanti anni da allora, ma alcune cose le ricordo ancora alla perfezione: lo scalpo del suo viso, diversi spartiti musicali sottovetro e l’intima sensazione di essere un’intrusa, o peggio, una spiona.

 Se quella era la casa di un grande musicista, mi chiedevo infatti all’epoca, con quale diritto io e i miei compagni potevamo aggirarci fra le sue stanze con la stessa nonchalance che avremmo dimostrato nell’appartamento di un nostro parente?

Quella domanda è rimasta a lungo senza risposta, e mi ha accompagnata nei miei viaggi in Italia e all’estero fino a oltre la maggiore età. Nel frattempo ho visitato altre case-museo, come quella di Giovanni Verga, ancora in Sicilia, o quella di Raffaello a Urbino, passando per quella di Fëdor M. Dostoevskij, di Joaquín Sorolla o di Alessandro Manzoni.

Tutte splendide, a modo loro, sebbene diversissime l’una dall’altra: alternando lo sfarzo all’essenzialità, gli utensili quotidiani alle opere d’arte, i mobili d’epoca alle prime edizioni di un capolavoro letterario, ho così dedicato la mia attenzione a scoprire come e dove vivevano persone che non avevo mai visto in vita mia, e di cui non sempre conoscevo a fondo le vicende personali.

Lo studio di Aleksandr S. Puškin nella sua casa di San Pietroburgo

Poi, un mattino, andando in un’aria di vetro, ho visto compirsi un (seppur piccolo) miracolo, quando a San Pietroburgo ho deciso di pagare il biglietto per accedere alla casa museo di Aleksandr S. Puškin, scrittore della prima metà dell’Ottocento che il popolo russo venera e ammira come fa il nostro con Dante Alighieri, o quello inglese con William Shakespeare.

Avevo studiato i suoi testi più celebri all’università, mentre della sua biografia ricordavo giusto la sua morte prematura in duello e il romanticismo di cui era intrisa la sua opera. Ebbene: l’audioguida obbligatoria, che sul momento mi era stata antipatica a causa del suo costo forzato, mi ha invece permesso una volta premuto Play di andare ben al di là di ogni mia conoscenza, di ogni mia aspettativa, di ogni passo mosso fra quelle camere.

La voce roca e profonda di un lettore/attore mi ha infatti segnalato quando varcare un uscio o soffermarmi accanto a una sedia, guidandomi fra i capitoli toccanti che avevano reso bella e terribile l’esistenza dell’autore. Un viaggio fatto di porte socchiuse e di versi in rima, di giacche e di musica classica in sottofondo, di sospiri e di tavolini, che si è concluso con me in lacrime per la morte dell’autore di fronte al suo capezzale freddo e vuoto.

«Non avevo mai vissuto niente di simile», mi sono detta lasciando l’edificio, quando invece mi è tornata in mente la volta in cui avevo raggiunto in autobus, con il cuore in subbuglio, la casa museo di Miguel de Cervantes, che solo pochi mesi prima della mia trasferta mi aveva stregata con il suo Don Chisciotte: lì a colpirmi non erano state le tante esposizioni temporanee dedicate al suo cavaliere, le iscrizioni o i manoscritti ancora intatti, ma solo la cucina, con le sue pentole ancora a vista, le ciotole, le panche intorno al tavolo.

Uno degli ambienti della dimora di Miguel de Cervantes vicino Madrid

«Qui», avevo riflettuto, «Cervantes mangiava e ragionava appena sveglio, o prima di andare a coricarsi. Qui masticava, beveva il latte, raccoglieva le briciole. E intanto chissà su quali avventure fantasticava, chissà quali frasi iniziava a ricamare fra sé e sé». Pure lì, in un luogo della Spagna del cui nome non voglio ricordarmi, mi era parso di rispondere ai dubbi di quella bambina che si sentiva fuori posto nel curiosare tra gli stipi e gli scaffali di un perfetto estraneo.

Dopodiché, neanche due mesi fa, ho fatto visita in dolce compagnia alla casa museo di Victor Hugo nella capitale francese. Avevamo pochi giorni per girarla in lungo e in largo, e tanti erano siti d’arte da cui passare, eppure abbiamo lavorato al nostro planning fino all’ultimo per non perderci l’abitazione di Place des Vosges numero 5. Col senno di poi, è stata una decisione saggia e fortunata, perché la dimora (già elegante e sfarzosa di per sé) è stata arricchita da statue, dipinti e disegni che hanno come soggetti i personaggi delle sue opere più celebri.

Siamo dunque passati davanti a Quasimodo intento a suonare una campana, a Jean Valjean che incontra Cosette nella foresta, a Esmeralda che danza alla presenza di Frollo e a Fantine in lacrime nel cuore della notte, puntando il dito su ogni dettaglio e stupendoci per l’espressività dell’uno o dell’altro personaggio a noi già così caro, e adesso così vero e pulsante di fronte a noi.

È da un po’, complice anche la pandemia, che non faccio nuove tappe alle case-museo della mia Trinacria, e numerosi sono i luoghi nei quali vorrei finalmente soffermarmi come si deve (a cominciare dalla casa museo di Luigi Pirandello fino ad arrivare a quella di Salvatore Quasimodo), né so, di conseguenza, in che condizioni versino allo stato attuale.

Se però potessi scegliere, mi piacerebbe ritrovare pure lì la commozione di San Pietroburgo, l’ammirazione di Alcalá de Henares, l’entusiasmo di Parigi. Vorrei non sentirmi di troppo, venire accolta come un’ospite desiderata, invitata, quasi di famiglia. Mi aspetterei che qualcuno, o qualcosa, mi dicesse: «Benvenuta. Questa casa è da sempre anche tua, e se accetterai ti lascerai prendere per mano ti mostreremo noi per filo e per segno il perché».

Sarebbe un bel regalo, per quella bambina delle elementari che si sentiva a disagio all’idea di fotografare pentagrammi da studiare meglio nella sua cameretta, seduta a un grande pianoforte di legno – anzi, sarebbe un bel regalo per chiunque, se vogliamo dirla tutta. Servirebbe a creare degli amici, anziché dei voyeur. Degli eredi, anziché dei turisti. Delle persone pronte a esclamare, anziché il classico «Ci sono stato», un più potente «Ci sono restato». Per ore intere, con gli occhi lucidi e la bocca aperta, a conoscere gli uomini e le donne al di là degli artisti e delle artiste che hanno fatto la storia. A soffiare via la polvere da storie e sentimenti, anziché soltanto dagli arazzi e dalle porcellane.

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