Il primo horror che ho visto nella mia vita credo sia stato The Blair Witch Project. La storia di cinque ragazzini americani che si avventurano nella foresta delle Black Hills incuriositi dalla leggenda della strega di Blair, e che alla fine si ritroveranno intrappolati per sempre all’interno di una casa. All’epoca non ci pensavo, non ci ho pensato a dire il vero per tanto tempo, ma nel leggere Il tarlo di Layla Martínez me ne sono resa conto con più cognizione di causa.

L’incubo di restare dentro una casa da cui non si riesce a uscire, oltre a essere un tòpos letterario e cinematografico, è stato per secoli una realtà. Le quattro mura domestiche hanno visto figlie, mogli e madri escluse, soffocate dalla famiglia, ignorate dalla società. E le pareti dell’abitazione sono diventate fauci immaginarie che schiacciavano e comprimevano lo spazio vitale.

L’ho realizzato adesso, davanti all’incipit folgorante di questo romanzo spagnolo tradotto da Gina Maneri per La Nuova Frontiera. E per la prima volta, anziché avere paura, o sentire il brivido d’emozione che mi suscita di solito una vicenda a metà fra il gotico e surreale, ho provato una profonda amarezza. Un senso di solitudine.

Lo abbiamo scoperto tutti, volenti o nolenti, cosa significa restare relegati in casa per mesi, per anni, a causa del Covid-19. Figuriamoci cosa può significare avere una storia personale e familiare legata a una casa malevola, che respira non solo insieme a noi, ma anche e soprattutto contro di noi.

«Quando ho varcato la soglia, la casa mi è saltata addosso. Succede sempre con questo cumulo di mattoni e sporcizia, piomba su chiunque attraversa la porta e gli strizza le budella fino a togliergli il fiato. Mia madre diceva che questa casa ti fa cadere i denti e ti prosciuga le viscere, ma mia madre se n’è andata molto tempo fa e io non me la ricordo».

Ce lo racconta così, l’autrice di Madrid, e nel momento in cui il testo prende una piega oscura, che sa di guerra e di povertà, di lutti e di vendette, la casa resta comunque al centro della scena, testimone e protagonista di un dramma non solo narrativo, ma specialmente storico, atavico, collettivo.

E se è interessante la sua prova letteraria è proprio per questo, perché spostando il focus sulla distopia, sul grottesco e sull’impossibile, si avvicina spaventosamente alla realtà. La sbircia, la corteggia, la denuncia. Ricordandoci che non scriviamo solo per descrivere, ma anche per evocare. Per parlare di fantasmi alludendo più di ogni cosa a quelli del passato, non a quelli della nostra mente.

Per farci paura non pensando a ciò che non esiste, bensì a quello che è sempre stato sotto i nostri occhi. Ma rivelandocelo con delicatezza, indirettamente, quasi di sbieco. Con l’angoscia e la dolcezza di chi sa, e anziché gridare si ferma un attimo a sussurrarci un messaggio all’orecchio, che se riusciamo a decifrare scopriremo più inquietante ed efficace che mai.

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