Il regista Marcel Carné è stato un simbolo della cultura francese del Novecento. Il suo “Les Enfants du Paradis” (1945), sceneggiato da Jacques Prévert, fu giudicato nel 1971 il miglior film francese di sempre. Nel 1979, quando gli fu conferito l’ambìto Premio Cesar alla carriera, Carné era preoccupato di non trovar più sostegno per i suoi tanti progetti cinematografici. Il cruccio lo arrovellava dacché aveva ultimato La Bible, un lungometraggio atipico sui mosaici del Duomo di Monreale, l’unico da lui interamente girato fuori dalla Francia. Visitando Monreale, Carné era rimasto stupito da quella «manifestazione d’arte pregna di amore e di fede, di una bellezza che mozza il fiato a chi per la prima volta la contempla». L’idea di farci un film si concretizzò nel 1976 grazie al sostegno del produttore André Tranché e della rete televisiva francese Antenne2. “La Bible”, lavoro affascinante quanto sfortunato, gli avrebbe segnato la vita in un modo imprevedibile, divenendo la sua ultima opera cinematografica.

Due frame dai titoli di testa e di coda

Carné non aveva concepito il film come un documentario, ma piuttosto come un oratorio per immagini e musica punteggiato da brevi testi poetici, tanto che avrebbe voluto intitolarlo “Un chante d’amour”. Dopo la morte del regista, avvenuta nel 1996, l’amico Didier Decoin, sceneggiatore del film, ha divulgato diversi aneddoti sulla vita e l’arte di Carné, nonché sulla lavorazione di “La Bible”. Egli racconta che per le riprese Carné aveva fatto realizzare un’enorme impalcatura per portare all’altezza dei mosaici i binari su cui far scorrere il carrello con la cinepresa Panaflex. Rievoca, in particolare, un episodio singolare che né il regista né il suo produttore avrebbero mai potuto immaginare.

All’interno del Duomo di Monreale un omino con i baffetti gli fa notare che un incidente può sempre capitare, che l’impalcatura è alta, che cadere da lassù…, ma con un piccolo contributo lui e suoi amici…

Carné è all’interno del Duomo di Monreale per l’ultimo sopralluogo tecnico. Gli si presenta un omino coi baffetti che, anche a nome dei “suoi amici”, gli esprime ammirazione e augura al film una buona riuscita. «L’avrà!», replica seccamente il maestro. Senonché l’omino fa notare che un incidente può sempre capitare, che l’impalcatura è alta, che cadere da lassù…, ma con un piccolo contributo finanziario, invece, lui e i suoi amici avrebbero…. A questo punto Carné sbotta: «Ma questa è una minaccia!». L’omino precisa che si tratta di “prevenzione”.

Al primo giorno di riprese l’amara sorpresa: il set è stato sabotato. Tranché si rassegna a pagare. La somma è esorbitante, ma da quel momento fila tutto liscio

Un frame dal film, che ritrae un dettaglio
della creazione del giorno e della notte

Carné e il produttore, André Tranché, pur preoccupati, non cedono. Al primo giorno di riprese ecco un’amara sorpresa: trovano il set sabotato, la cinepresa è stata scaraventata giù dall’impalcatura e un biglietto avvisa che la prossima volta sarebbe toccata all’operatore. Tranché allora si rassegna a pagare. La somma è esorbitante, ma da quel momento tutto fila liscio. La mafia offre alla troupe i pasti dei migliori ristoranti che controlla; supporta gli spostamenti in città con auto private in corsia preferenziale; a turno fa chiudere dei cinema perché Carné possa visionarvi le riprese già effettuate; infine, regola il flusso dei fedeli in cattedrale, in occasione di matrimoni o funerali. In questo caso, dinanzi all’ingresso, stanno due uomini che danno direttive inderogabili: «Procedete ordinatamente dietro al morto e nel più assoluto silenzio, ché il maestro sta girando e deve concentrarsi».

Le riprese si conclusero senza intoppi, ma restò in Carné una profonda inquietudine che a lavorazione ultimata confidò a Decoin: «Povera Bibbia! Quando penso che è toccato a me, sodomita e miscredente, portare sullo schermo questa santa storia – per giunta con il concorso della mafia… Non pensi che il tuo buon Dio me la farà pagare cara?».

Per Carné sarebbe stato l’ultimo film della sua carriera. Pur avendo pronte decine di progetti di nuove opere non trovò più chi investisse su di lui. Sprofondò così nella malinconia

Non sappiamo per quanto tempo quell’interrogativo abbia tormentato Carné. Le cose sembrarono dapprima andar bene. “La Bible”, presentato fuori concorso al festival di Cannes del 1977, ricevette il premio della giuria ecumenica. Ma il successo finì lì. Antenne2 giudicò il film troppo lungo e solo nel 1979, con due anni di ritardo, ne trasmise in TV una versione monca. Il produttore non riuscì a piazzare i diritti del film, che rimase fuori mercato. Per Carné sarebbe stato l’ultimo film della sua carriera. Cinicamente avversato dai registi e dai critici della “nouvelle vague”, ignorato dall’establishment culturale francese, pur avendo pronte decine di progetti di nuove opere non trovò più chi investisse su di lui. Sprofondò nella malinconia. Proprio durante le riprese di “La Bible” era stato informato della morte del suo amico Jean Gabin e si prefigurava un tempo sempre più scandito dalla scomparsa delle persone care, che «bruscamente ti fa prendere coscienza della tua età e che ti rende sempre più solo in un mondo che ti è sempre più estraneo».

L’incontro di André Tranché con papa Giovanni Paolo II

Nei suoi ultimi anni Carné condusse una vita modesta, mentre il produttore André Tranché, a causa delle ingenti risorse personali investite nel film di Monreale, si ridusse in miseria. A nulla era valso l’aiuto offertogli dall’amico Roberto Tumbarello, giornalista siciliano. Questi nel 1979, grazie alle conoscenze che vantava in Vaticano, combinò con Tranché una visione privata di “La Bible” per Giovanni Paolo II a Castel Gandolfo. Si sperava così di avere un buon viatico per il film. Il Papa, dopo averlo visto, commentò: «Mi sono commosso. Sembra che quelle tessere dei mosaici si muovano e parlino. Siate orgogliosi della vostra opera». Non senza precisare: «…Ma, se l’avete realizzata per guadagnarci, è stata un pessimo affare. Purtroppo hanno più successo le frivolezze che non le passioni profonde che quest’opera sollecita». Si dimostrava la verità dell’antico motto per cui “Carmina non dant panem”. O, semplicemente, aveva avuto ragione Prévert, quando in un’intervista aveva presagito a Carné un destino simile a quello di Georges Meliés, pioniere del cinema: «Ci sono buone probabilità che Marcel, come Meliés, vada a finire vendendo arance nelle stazioni ferroviarie».

Carné, nei suoi ultimi anni non vendette arance, ma i film che progettò rimasero nel cassetto. Ebbe piena cognizione dei sacrifici che la sua vocazione chiedeva e citava l’aforisma di Gide “l’arte fiorisce dalle costrizioni e muore della libertà”. Nelle difficoltà, furono proprio i mosaici di Monreale, quella singolare narrazione figurativa integrata all’architettura, ad ispirarlo ancora. Carné negli anni Ottanta immaginò nuove forme di spettacolo audiovisivo nello spazio urbano: «Venti proiettori le cui immagini convergono verso uno schermo gigante… con fotogrammi che si giustappongono e si sovrappongono…con un sonoro quadrifonico…immagini statiche, cui manca sì il movimento del cinema, ma con cui si possono creare effetti inusuali, per ottenere forti suggestioni poetiche…». “La Bible” sarebbe rimasto, è vero, l’ultimo film di Carné, nonostante la sua longevità. Ma sarebbe stata la memoria dei mosaici di Monreale, così presente in quelle rappresentazioni audiovisive che pur riuscì a realizzare, a nutrire per un po’ il suo spirito inquieto e a dargli il pane della vecchiaia.


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