Assistere ad un’opera lirica nel nostro paese è per molti parte di un rituale collaudato. Spesso, le uniche sorprese che è lecito attendersi si riducono a messe in scena o scelte registiche particolarmente ardite. Accade ben più di rado però che sia il repertorio a spiazzare. È anche per questa ragione che in questi giorni a Catania si respira un’aria di grande attesa per la prima messa in scena in assoluto al Teatro Massimo Bellini de “Il berretto a sonagli”, nuovo lavoro tratto dal dramma umoristico di Pirandello sulle musiche del compositore lombardo Mario Tutino, al quale il Teatro ha commissionato le partiture. Dopo l’esperimento compiuto qualche anno fa con “La Capinera” di Bella, Mogol e Fulcheri, l’Ente Autonomo Regionale Teatro Massimo Bellini di Catania, ritenta la carta del melodramma contemporaneo, questa volta chiamando in causa uno dei maggiori compositori viventi e affidando la regia a un visionario come Davide Livermore. La serata sarà anche occasione di un grande ritorno. Ad essere messo in scena accanto al dramma umoristico pirandelliano sarà “La Lupa”, atto unico in due quadri ispirato all’omonima novella di Giovanni Verga, il quale era già stato musicato da Tutino su libretto di Giuseppe di Leva nel 1990.

Autore di oltre una dozzina di lavori teatrali, fra i quali spicca “La Ciociara” composta per la San Francisco Opera, ed esponente di spicco della musica neo-tonale, Tutino è sempre stato un artista calato nel suo tempo, come non ricordare il “Requiem per le Vittime della Mafia” scritto insieme ad altri illustri colleghi ed eseguito nella Cattedrale di Palermo a un anno dalle stragi in cui persero la vita Falcone e Borsellino. Lo abbiamo intervistato in vista del debutto, soffermandoci sulle prospettive dell’opera lirica e sull’opportunità di continuare a produrne di nuove nel nostro tempo.

Maestro, sembra che gli aridi campi della novella verghiana e il formalismo di Ciampa abbiano lasciato spazio a tematiche attuali come il femminicidio.
«La “Lupa” è un dramma a due dove non è chiaro chi fra la protagonista e il suo alter ego maschile sia il vero colpevole della tragica conclusione della vicenda. Sono entrambi vittime di un’ossessione malsana per l’altro che li condurrà verso il baratro. Tuttavia, quando ad essere preda di questi torbidi istinti è l’uomo, la società tende a chiudere un occhio, se è la donna, questa viene subito emarginata e condannata. Nel “Berretto”, invece, abbiamo dato più spazio a Beatrice Fiorica, che da giovane fanciulla si trasforma in una donna determinata, trasformando invece Ciampa da contabile dimesso a personaggio forte e di grande potere».

Oltre a essere musicista e compositore lei è stato anche direttore artistico del Regio di Torino, del Comunale di Bologna e presidente dell’Anfols, l’associazione che riunisce le fondazioni liriche italiane, in quale condizione versa oggi la scrittura operistica?
«Sfortunatamente nel nostro paese non c’è mai stata una tradizione di insegnamento del mestiere dell’operista, per cui la situazione è decisamente preoccupante. Questo è un mestiere particolare che ha le sue tecniche, i suoi segreti, il suo artigianato, nessuno imparerà al conservatorio come si scrive un’opera ed è per questo che non ne nascono di nuove. Ci limitiamo a eseguire i melodrammi del passato con il grave limite che il repertorio non viene rinnovato e il pubblico si disamora nel vedere storie che non comprende o non lo emozionano più. L’opera è fatta per essere fruita in modo diretto, deve sapere commuovere, far piangere, ridere ma questo non è sempre facile. Come dico spesso se la lirica fosse nata in Francia oggi ci sarebbe un’università dedicata a lei. L’Italia invece ha una capacità unica nel dissipare i suoi tesori, proprio non sappiamo valorizzare il nostro passato e questo è un grande peccato».

Però lo scorso anno il Wexford Festival, fra le manifestazioni più blasonate in Europa che dal 1951 propone opere rare e inedite, ha ospitato la sua “Ciociara”. È un caso sporadico o ci sono altre realtà che invece valorizzano la creatività contemporanea?
«Di sicuro all’estero ce ne sono molte di più che in Italia. Basti solo pensare che in America si scrivono cento nuove opere all’anno, al di là dei confini della nostra penisola la lirica è viva, non viene vista come un oggetto polveroso del passato, i giovani la frequentano abitualmente e c’è una maggiore fruizione. L’operazione compiuta dal Teatro Massimo Bellini, ma anche da altre sporadiche realtà in Italia, purtroppo non è la prassi».

Un momento delle prove de “Il berretto a sonagli”, Ph. Giacomo Orlando

A proposito de “La ciociara”, Fabio Ceresa è l’autore del testo ed è anche colui che firma il libretto de “Il berretto a sonagli”. Che rapporto ha con i librettisti?
«Con Ceresa ho iniziato una collaborazione piuttosto recente, però è grazie a lui e a Luca Rossi che ho capito una cosa molto importante, intuita già da Puccini: per scrivere un’opera serve uno sceneggiatore che costruisca un plot ben organizzato drammaturgicamente e un librettista che si occupi dei versi. Due mestieri diversi che convergono verso un’unica via. Proporre oggi un’opera scritta come “Il Trovatore” di Verdi non funzionerebbe, perché gli spettatori sono maggiormente avvezzi a una più stringente concatenazione dei fatti».

Il recente passato ha visto molte compositrici d’opera, penso a Elsa Olivieri Sangiacomo, Nadia Boulanger, Betty Beath, Anne Boyd. Esistono oggi delle artiste che proseguono questa prestigiosa tradizione?
«Ne conosco alcune ma effettivamente sono poche. Una bravissima compositrice è Elisabetta Brusa che è anche molto vicina alla neo-tonalità e in particolare al neo-romanticismo. È molto apprezzata all’estero, soprattutto in Inghilterra, ma in Italia è poco nota. Finché non capiremo che l’opera non può più essere considerata un museo non potremo avere un vero rinnovamento, per farlo però occorre l’impegno di tutti in particolare dei teatri e delle fondazioni».

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