A scuola i ragazzi passano gran parte della loro giornata ma, Esami di Stato a parte, non se ne parla molto. Il pensatore francese, che a rileggerlo oggi appare assolutamente contemporaneo, ci ricorda l’importanza del ruolo del docente, cruciale per l’effettiva formazione dei futuri adulti

Nata all’ombra delle Hit Mania Dance, cresciuta a pane, social media e multiculturalismo, la Generazione Z si prepara all’Esame di Stato, fra assolati ripassi e briose nottate in spiaggia per gli ultimi selfie di classe. Il Miur fa sapere che il loro più grande alleato, Internet, non sarà ammesso (e neanche i cellulari, ovviamente): l’unica rete su cui potranno contare sarà quella neurale. Previste inoltre importanti novità per il 2019: niente tema storico e saggio breve nella prima prova, doppia materia in seconda prova e in pensione terza prova e tesina. Insomma, una maturità fresca di riforma per una fresca generazione che sa di rottura. La domanda Che ne sanno i Duemila? passa però dalle mani dei loro insegnanti, genitori spirituali di questi cuori (e ormoni) in tempesta. Sono stati capaci di guidarli in quel percorso straordinario e delicato che è la scolarizzazione? Le pizze di fine anno costringono a tirare le somme di tante campanelle, accendendo i riflettori sul vitale incarico degli insegnanti, troppo spesso bistrattati nel nostro Paese. Cosa può dirci a riguardo un filosofo di più di 400 anni fa?

MAESTRI ESPLORATORI. «La maggiore e più grave difficoltà della scienza umana par che s’incontri proprio là dove si tratta dell’educazione e dell’istruzione dei fanciulli». Con queste parole Michel Eyquem de Montaigne, noto semplicemente come Montaigne, si accinge a trattare dell’educazione nel capitolo XXVI dei suoi Saggi. Siamo nel 1588: niente esami di Stato e gli adolescenti non vivevano l’era turbolenta di Internet ma un momento storico altrettanto critico, quello delle prime grandi esplorazioni intercontinentali di cui, in fondo, sono figli voli low cost, Erasmus e cosmopolitismo. È qui che si colloca la riflessione sulla diversità a cui deve essere educato ogni fanciullo. «Vorrei che si cominciasse a portarlo in giro fin dalla sua tenera età», scrive Montaigne. «Non per riportare soltanto, secondo la moda della nostra nobiltà francese, quanti passi misura Santa Rotonda, o l’eleganza delle mutande della Signora Livia». Entrare in contatto con culture straniere serve per «limare il nostro cervello contro quello degli altri». Il buon insegnante mette sui banchi diversità e complessità della vita reale. «Tutto quello che si presenta ai nostri occhi serve sufficientemente da libro: la malizia di un paggio, la stoltezza di un servo, un discorso fatto a tavola». Il fanciullo imparerà così ad adattarsi a ogni contesto e compagnia, rilevandone sempre il buono.

CORAGGIOSI AGRICOLTORI. «Come nell’agricoltura le operazioni che precedono il piantare sono determinate e facili, e così il piantare medesimo. Ma quando ciò che è stato piantato comincia a vivere, per farlo crescere si ha una gran varietà di modi e molte difficoltà: così per gli uomini, ci vuol poca abilità a piantarli, ma dopo che sono nati ci si addossa un compito diverso, pieno di affanni e di ansie, per educarli e allevarli». Quant’è dura accompagnare i ragazzi alla “maturità”? Dalla scelta del precettore «dipende tutto il risultato della sua educazione», è convinto il filosofo. «Andateci al momento della lezione: non sentite che grida di ragazzi tormentati e di maestri ubriachi di collera». Pensiamo davvero, si chiede Montaigne, di svegliare il loro interesse con fruste, urla e costrizioni, o di istupidirli? Così nasce l’odio per i libri. Studiare deve essere gradevole, gli studenti vanno incitati all’allegria: come loro, anche le piante patiscono umori tristi. Allora spazio anche a festini e giochi. «Non c’è che da secondare il desiderio e l’amore, altrimenti non si fanno che asini carichi di libri».

«NON BEI GIOVANI MA GIOVANI ROBUSTI». Ciò significa che il precettore non deve essere severo? «Se si vuol farne un uomo valente, non si deve certo risparmiarlo proprio in gioventù, ma andar spesso contro le regole della medicina: che viva all’aria aperta e in mezzo alle inquietudini». E allora, esorta il pensatore: «Toglietegli ogni mollezza e ogni effeminatezza nel vestire e nel dormire, nel mangiare e nel bere; abituatelo a tutto. Che non sia un bel giovane e un damerino, ma un giovane robusto e vigoroso». Che impari ad amare la modestia: «Lo si educhi soprattutto ad arrendersi e a ceder le armi alla verità appena la scorga: sia che essa nasca dalle mani del suo avversario, sia che nasca in lui stesso per qualche resipiscenza». Ravvedersi è segno infatti di animi nobili. «E che non desista dal fare il male né per mancanza di forza né di capacità, ma a forza di volontà».

EDUCARE A FARE COME LE API. Ecco il vero grande merito del buon insegnante: oltre a essere mite e con «la testa ben fatta che ben piena», deve accendere la libertà dell’individuo. «Non gli chieda conto soltanto delle parole della sua lezione, ma del senso e della sostanza, e giudichi del profitto che ne avrà tratto non dalle prove della sua memoria, ma dalla sua vita». Una scienza meramente libresca è futile come imparare a memoria: «È segno d’imbarazzo di stomaco e d’indigesto rigettare il cibo come lo si è inghiottito». Il fanciullo quindi deve essere guidato a fare come le api. «Le api predano i fiori qua e là, ma poi ne fanno il miele, che è tutto loro, non è più timo né maggiorana: così quello che ha preso da altri, egli lo trasformerà e lo fonderà per farne un’opera tutta sua». Per Montaigne «il vero specchio dei nostri ragionamenti è il corso della nostra vita».

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