Tra test d’ingresso all’università molto distanti dai programmi scolastici ed errori grammaticali gravi che gli studenti si trascinano dopo il loro percorso scolastico, qual è oggi il senso degli esami di maturità? Dopo averlo chiesto agli studenti diamo ora la parola ai docenti

Gli esami non finiscono mai e i maturandi lo sanno bene poiché tra pochi giorni, conclusi gli orali, coloro che vorranno frequentare le università ad accesso limitato dovranno prepararsi per il test selettivo. E forse anche dopo il superamento di questa prova siamo un po’ immaturi, tant’è che la preparazione conseguita lungo il percorso quinquennale è incapace di fornire le conoscenze di base per l’accesso all’università, ma soprattutto inadeguata a fornire le necessarie competenze grammaticali. Ma allora oggi che valore hanno gli esami di Stato? Sono ancora capaci di misurare le conoscenze e competenze richieste e maturate dagli studenti? Ne abbiamo parlato con due insegnanti liceali d’italiano, Marco Pappalardo docente presso il liceo scientifico e classico Don Bosco di Catania e Patrizia D’Arrigo docente e dottoranda presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania e membro regionale dell’Associazione degli Italianisti- Sezione didattica (Adi-Sd).

UNA PREPARAZIONE PER GLI ESAMI FUTURI. «Da un punto di vista teorico – spiega la prof.ssa D’Arrigo – l’esame di Stato valuta conoscenze e competenze che sono già state oggetto di giudizio nel corso dell’anno scolastico». Il senso di questa prova, allora, andrebbe ricercato nell’esperienza stessa. «Per la prima volta – continua – i ragazzi si trovano a tu per tu con se stessi, con le loro capacità e con il loro potenziale intellettuale. Di esami ne affronteranno tanti nella loro futura vita, l’esame di Stato ne è l’esordio». Secondo la docente, inoltre, sarebbe necessario rimodulare gli esami sul modello di altri paesi europei, con una maggiore attenzione alle competenze rispetto alle conoscenze.

UN PROBLEMA D’IMPOSTAZIONE. Che gli esami non siano poi così inutili è opinione condivisa anche da Marco Pappalardo: «Si tratta di un’esperienza che prepara alla vita – spiega -. Il problema allora non è tanto se gli esami siano utili o meno, ma se siano valide le modalità con cui essi vengono svolti ». Secondo Pappalardo l’impostazione non sarebbe infatti adatta a misurare la vera maturità dei ragazzi. «La conclusione del percorso quinquennale dovrebbe valutare la persona e non produrre numeri; questo sistema scolastico così come quello universitario è incapace di creare ciò di cui la società ha realmente bisogno».

IL CAMPUS MATURANDI. Per trasformare le notti di lacrime e preghiere in un momento di crescita intellettuale, il professor Pappalardo ha inventato il “campus maturandi”, un’iniziativa che si protrae da circa sette anni: «Con i ragazzi e il corpo docenti del Don Bosco, nel periodo immediatamente antecedente alla prima prova, trascorriamo tre giorni di vita comune, tra studio intenso e momenti di convivialità. È un’occasione per ripassare e fornire ai ragazzi un metodo di approccio allo studio, ma anche per prepararli psicologicamente all’esame: l’ultimo pomeriggio si tiene, infatti, una simulazione degli orali».

LA GRAMMATICA NON SARÀ MAI IL MIO MESTIERE. DI CHI È LA COLPA?Appurata la necessità, evidenziata dai due docenti, di ripensare l’esame di stato, quali sono le principali lacune che i ragazzi si portano dietro fino alla maturità? Una di queste concerne senza dubbio la grammatica della loro lingua madre. A Catania, l’Università ha tentato di porvi rimedio, organizzando dei corsi zero di lingua italiana presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche, ma la responsabilità continua ad essere riversata sulla scuola. «Effettivamente – spiega ancora Marco Pappalardo – a volte noi docenti ci troviamo di fronte ad errori grammaticali gravi, alcuni dei quali hanno radici profonde. Tuttavia è anche necessario considerare l’attuale modello d’esame di Stato costringe il professore d’italiano a un programma rigido che impone una conoscenza estesa della letteratura, magari fino a Caproni, a scapito delle ore da dedicare alla grammatica e alla scrittura. L’università, d’altra parte, organizza sì questi corsi zero, ma non prevede prevede discipline che si occupino di scrittura».

GLI ERRORI PIÙ COMUNI. «Gli errori che vengono più comunemente commessi – spiega ancora la prof.ssa D’Arrigo – riguardano l’ortografia, la sintassi del periodo o la reggenza dei verbi». Se, nei fatti la prima prova degli esami è l’esito di cinque anni di lavoro sulla grammatica, sui testi e sulla scrittura il fallimento sarebbe secondo lei da avvisare nel modo d’insegnare italiano «ricorrendo a esercizi di ripetizione o riempimento o reperimento per favorire la memorizzazione piuttosto che abituando gli studenti al ragionamento e alla riflessione metalinguistica».

IL RUOLO DEI SOCIAL. Molto spesso i social network sono stati additati come “cattivi maestri”, ma qual è la loro reale incidenza sulla capacità di scrittura dei ragazzi? «In realtà – spiega ancora il prof. Pappalardo – i social ci spingono a scrivere molto di più di quanto non facessimo prima, sebbene non sempre con modalità corrette. Anche in questo caso, allora, ciò che dovremmo fare è cogliere l’occasione per insegnare le forme corrette, trasformando ogni situazione in un’occasione educativa».

L’APPELLO DEI 600 DOCENTI UNIVERSITARI. Lo scorso febbraio 600 docenti universitari hanno scritto una lettera aperta – rivolta al Presidente del Consiglio, alla ministra dell’Istruzione e al Parlamento italiano – denunciando l’incapacità dei giovani a scrivere correttamente in italiano ed esprimersi adeguatamente. All’interno del documento sono state proposte alcune linee d’intervento come l’introduzione di “verifiche nazionali periodiche” durante gli otto anni del primo ciclo scolastico. «Chi critica la scuola deve avere più cognizione di causa ed essere pronto al confronto», commenta Pappalardo in sintonia con la professoressa D’Arrigo che osserva «le soluzioni ventilate dall’appello sono a mio avviso fallimentari e già ampiamente sperimentate. Solo un serio e condiviso ripensamento dei metodi, elaborato attraverso un reale dialogo fra scuola e università, potrebbe avviare una seria sperimentazione nelle classi. I docenti di scuola hanno una collaudata esperienza nelle classi, mentre i docenti universitari padroneggiano gli studi e la ricerca. L’unione delle due prospettive può solo fare bene alla formazione delle nuove generazioni».

Scuola e Università troppo distanti. Il futuro passa dai test: «L’esame di maturità? Inutile»

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