Maurizio Lunetta: «Etna Doc vuol dire qualità. Per questo non deve inseguire la moda»
Era il I secolo a.C. quando il geografo, storico e filosofo greco Strabone elogiava nei suoi scritti la conformazione del suolo etneo per la coltivazione della vite, rilevando già allora fino a che punto costituisse una parte integrante non solo del territorio locale, ma anche della storia e della cultura sicula. La stessa centralità a cui faceva riferimento Strabone è quella che oggi, a oltre duemila anni di distanza, imprenditori italiani e stranieri hanno intuito possa stare alla base di un vino di pregio, che vale la pena esportare e far conoscere anche altrove.
PRODUZIONE E INVESTIMENTI. Non per niente, basta dare un’occhiata agli ultimi dati in merito per notare che sono oltre 5,8 milioni le bottiglie prodotte nel 2022, il 29% in più rispetto all’anno precedente. E se pensiamo che la denominazione Etna DOC si estende per 1184 ettari ed è divisa tra quasi 400 viticoltori (383 quelli censiti nella passata vendemmia), non stupisce che nell’ultimo decennio il valore dei vigneti etnei sia quadruplicato, portando attualmente ogni ettaro a costare fino a 150mila euro. In questa enorme area, si contano oggi 69 aziende con aree di vinificazione proprie, mentre sono addirittura 101 le cantine più piccole che utilizzano le strutture di quelle maggiori per vinificare e mettere il proprio vino in bottiglia. Una realtà composita, quindi, e soprattutto molto diversificata, che negli ultimi anni ha attirato imprenditori e protagonisti assoluti del vino italiano del calibro di Angelo Gaja, Oscar Farinetti, la famiglia di viticoltori veronesi Tommasi, le realtà toscane Piccini e Castello di Bossi, e non da ultimo Gianni Rosso. Eppure, le lusinghe verso il vulcano etneo non sono di certo un fenomeno nuovo: «Della nostra montagna si erano già innamorati vent’anni fa il toscano Andrea Franchetti e il piemontese Marco De Grazia» precisa Maurizio Lunetta, direttore del Consorzio tutela Etna DOC, quando lo raggiungiamo per approfondire insieme l’argomento. «C’è stato poi il visionario Salvo Foti, cantine storiche come quelle di Benanti e di Murgo… È grazie ai loro vini di pregio se i consumatori hanno scoperto che i vini provenienti dai terreni vulcanici possono vantare una grande riconoscibilità».
IL FASCINO DEI SUOLI VULCANICI. D’altronde, le caratteristiche del suolo etneo sono rintracciabili in pochi altri posti al mondo, e senza dubbio restano uniche nel loro genere nel territorio italiano. «Il nostro è un vino diverso – ci spiega infatti Lunetta – che io definisco “vero vino vulcanico”. Come se non bastasse, l’Etna ha una storia tuttavia geologicamente recente. Il fascino dei suoi suoli è quindi un valore aggiunto, e credo che anche da questo derivi l’interesse degli imprenditori che decidono di investire qui». I produttori nati e cresciuti sull’Etna, nel frattempo, continuano a vivere a stretto contatto con il vulcano, e hanno intenzione di tramandarsi cantine e vigne di generazione in generazione. Ne è sicuro Maurizio Lunetta, che aggiunge: «La nostra è una piccola denominazione, e la stragrande maggioranza dei produttori è gente che sente di avere nel capoluogo etneo le proprie radici. Parliamo di 390 proprietari, più della metà dei quali possiede però appena un ettaro vitato. Il loro, insomma, è un modello in cui si rivela fondamentale il legame personale con il territorio».
DENOMINAZIONE SÌ, MA NON “ALLA MODA”. In questo contesto, continua pertanto Lunetta, il sostegno degli investitori non è da considerare in contrasto con gli sforzi della produzione locale, anzi. «Pensiamo al contributo che queste risorse finanziarie possono rappresentare in ambito enoturistico e di valorizzazione del paesaggio: se riusciremo a raggiungere determinati obiettivi con l’aiuto di chi vuole puntare sui nostri vini, si tratterà di una vittoria per l’intera economia del vulcano, e non solo per le singole realtà nostrane». Al riguardo, comunque, Lunetta ci tiene a specificare che «di certo non dobbiamo puntare a essere una denominazione alla moda, bensì a mantenere alto il nostro valore, rimanendo un classico dell’enologia italiana». In che modo? «Portando avanti come Consorzio un progetto di sostenibilità del territorio. Attualmente, infatti, il 59% dei 1118 ettari presenti è certificato dal punto di vista biologico. Partendo da questa percentuale, intendiamo avviare un percorso che, al di là delle singole cantine, coinvolga la denominazione intera, rivolgendo la propria attenzione non solo ai temi ambientali ma anche a quelli etici, sociali e della comunicazione».
RESTARE ORIGINALI. Se Lunetta parla anche di comunicazione è perché quest’ultima si rivela uno strumento cruciale per informare correttamente e in maniera completa sui vini di produzione nostrana: trovandoci davanti a un brand conosciuto ormai in tutto il mondo, «la sfida è essere bravi a interloquire con i giornalisti di settore, con chi si occupa di lifestyle, con le guide naturaliste e perfino con gli influencer», dal momento che «viviamo in un’area vinicola dalla biodiversità unica, che non può non catturare l’interesse di diverse professionalità». Intanto, per evitare di fare il passo più lungo della gamba, Lunetta ci ricorda che dal 2021 al 2034 tutti i vigneti impiantati non potranno ancora far parte della denominazione. E il motivo è presto detto: «Vogliamo crescere oculatamente, senza rischiare di perdere il nostro valore strada facendo e mantenendo intatta la nostra originalità». Perché, come sottolinea Lunetta, restare originali significa evitare che l’Etna diventi una mera terra di conquista, preservando il legame con il territorio e la ricerca in vigna mentre si riconosce il ruolo dei nuovi player del settore, così da garantire sempre il massimo della qualità.