Ci sono giorni in cui, fin dai primi momenti in cui apro gli occhi, mi sento profondamente arrabbiata. Covo una sorta di frustrazione mista a desiderio di vendetta, un bisogno di giustizia che mi svuota, mi tormenta, non mi fa pensare ad altro. Non capita per caso, né in situazioni poco prevedibili.

Al contrario, succede puntualmente quando vengo a sapere o assisto (direttamente, indirettamente, parzialmente: poco cambia) a episodi di violenza di genere, di discriminazioni ai danni delle donne, di sessismo, di comportamenti che ancora intasano e intossicano le nostre società, non solo in Italia ma anche – e, talvolta, soprattutto – in tanti altri Paesi del mondo.

Di solito resto a crogiolarmi in queste sensazioni per qualche minuto, comincio a ragionare su cosa potrei fare nel concreto per cambiare la situazione, per offrire il mio contributo, per dire basta e fare in modo che si senta forte e chiaro, ovunque intorno a me. Dopodiché, raccolgo le idee, le sensazioni e le notizie, e cerco di tenermele strette mentre mi libero della rabbia, la lascio scorrere via ed evito che mi avveleni il resto della giornata.

Eppure, fantastico spesso su cosa succederebbe se. Se la rabbia la incoraggiassi, anziché trasformarla in azione e in iniziativa. Se accettassi di farla rimanere dentro di me allo stato brado, violenta e cieca, incapace di fare distinzioni, desiderosa solo di trovare il primo colpevole casuale su cui sfogarsi, ancora e ancora, finché non si sentirà appagata.

Non sarebbe sano, non porterebbe a niente e, anzi, mi trasformerebbe quasi per certo nelle belve machiste che tanto critico. Ma ciò non toglie che l’immaginazione a volte sia più veloce della realtà, più libera dell’etica, più indipendente del nostro codice comportamentale e culturale, o delle persone che scegliamo attimo dopo attimo di diventare.

Ed è nello stesso modo, credo, che è nato un esperimento come quello di Jude Ellison Sady Doyle, da poco in libreria con il suo primo graphic novel, illustrato da A.L. Kaplan e portato in Italia da Tlon, nella traduzione di Laura Fantoni. MAW, si intitola, Una mostruosa vendetta contro il patriarcato, e ha per protagonista una donna di nome Marion Angela Weber (MAW, per l’appunto), che dopo l’ennesima violenza subita durante un ritiro si trasforma letteralmente in un mostro.

Potenza della narrativa, bellezza – anche selvaggia – delle arti visive. Marion Angela, dai nomi religiosi e puri, abbandona la sua identità per vestire i panni di una creatura famelica, divoratrice, che rischia di mettere a repentaglio le cose, i luoghi e le persone che la circondano. Come se avesse smesso di contenersi, di autocontrollarsi, di sforzarsi di essere un’attivista coscienziosa in un mondo marcio, e avesse scelto – più o meno consapevolmente, più o meno deliberatamente, più o meno come me o come voi – di dare voce soltanto al suo Es freudiano.

Così, MAW finisce per configurarsi come una risposta provocatoria ed efficace, evocativa e terribile, a tutti gli E che sarà mai? che ci siamo sentite dire, o che abbiamo dovuto ingoiare nostro malgrado. La dimostrazione del fatto che il sonno del femminismo genera più mostri dei quadri di Francisco Goya, e che ancora una volta la responsabilità di chi si ribella alle catene che gli hanno imposto non è della vittima, come non lo è il suo appetito potenzialmente malsano.

«Siamo così tante», dice non a caso in chiusura di libro la protagonista, con un tono che possiamo ipotizzare ammaliatore e orrorifico insieme. «Siamo state quaggiù troppo a lungo» e «siamo così affamate» che, se continua così, chissà di cosa potremmo finire per cibarci, al di là della nostra bile e della nostra capacità di metabolizzare gli abusi del patriarcato.

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