Sono anni che leggo studi scientifici sull’utilità di alzarsi presto al mattino. E anni che, puntualmente, li ignoro. Potrà far bene al cuore, migliorare la circolazione e il metabolismo, ma la verità è che con i miei bioritmi non funziona.

Questo è il motivo per cui, anche quando sono i grandi autori della letteratura a consigliare di essere mattinieri per altri motivi, alla fine li ascolto raramente. Haruki Murakami ne L’arte di correre parla per esempio dei vantaggi di non abbandonare l’attività fisica nemmeno da adulti, per motivi anche e soprattutto psicologici, senza contare le celebri levatacce di scrittori come Ernest Hemingway o Marcel Proust.

Quando, però, ho saputo che Lo spazzino e la rosa dell’intellettuale Michel Simonet era diventato un caso letterario in Svizzera, mi sono comunque procurata l’edizione italiana tradotta da Anna D’Elia per Animamundi Edizioni, convinta che avrei trovato una prospettiva sull’essere mattinieri che magari mi avrebbe convinta una buona volta a cambiare direzione.

Centocinquantadue pagine dopo, posso dire con certezza che avevo ragione, ma che al tempo stesso non mi aspettavo di ritrovarmi davanti a un’ode alla vita così delicata, consapevole e travolgente. Perché Michel Simonet non si limita a raccontarci cosa si vede a Friburgo quando lui indossa per scelta la sua divisa da lavoro e osserva con candore e poesia il mondo che aveva imparato a conoscere sui libri di scuola e alla facoltà di Teologia.

Piuttosto, ci ricorda che «quando si ama, si vede la bellezza nascosta in ogni cosa», e che proprio all’inizio di ogni giorno, senza nessuno a distrarlo dalla sua ricerca, lui la trova nella rosa che gli regala gentilmente il fioraio e che porta poi con sé di strada in strada, così come nei fogli persi per distrazione o nelle carte regalo che dopo aver assolto il loro compito vengono lasciate in un angolo.

«È un lavoro ingrato – evidenzia al riguardo Simonet – ma non privo di grazia che anzi vi affiora costantemente. Un mestiere indubbiamente sporco, ma non uno sporco mestiere, che privilegia l’interiorità. Etico e cosmico in senso universale a differenza dell’estetica e della cosmetica mondana», secondo un’argomentazione che non solo fa onore agli spazzini, ma che fa tornare voglia (per l’appunto) di vivere in modo nuovo le città in cui abitiamo.

Perché chinarci a raccogliere qualcosa che non ci appartiene, rimetterla al suo posto e al tempo stesso chiederci come sia finita lì, di cosa ci stia parlando e come possiamo renderci utili affinché non diventi un intralcio per gli altri, è un «lavoro necessario che, come tutto ciò che è necessario, non è mai ridicolo e ancor meno disprezzabile, ma che ci “pone” di fronte alla natura e agli individui, insegnandoci ad acquisire l’intelligenza delle situazioni, la deontologia della strada e i comportamenti adeguati al caso».

Non stupisce, di conseguenza, scoprire che Simonet si è guadagnato la fiducia e l’affetto del suo vicinato, che chiunque lo conosce e lo riconosce per il suo senso civico, che la profondità dello sguardo e l’orizzontalità dei suoi gesti quotidiani sono diventati già da tempo un tutt’uno, aiutandolo a guardare con ironia e spiritualità sfumature che a noi restano quasi invisibili.

Ora che ho scoperto la sua storia, e la maniera in cui oltretutto ha deciso di mantenere i suoi sette figli, l’idea di puntare la sveglia all’alba per la prima volta mi convince davvero. Perché c’è tanto da fare, lì fuori, al di là dei gesti a cui siamo abituati, e impararne qualcuno in più non guasterebbe affatto, specie se basta rimboccarsi le maniche per dare concretamente una mano.

Perché non possiamo dire di essere parte del mondo, se non facciamo sul serio la nostra parte, prendendoci cura dei suoi aspetti meno gradevoli e trasformandoli un passo alla volta in un fiore che aspetta solo noi per tornare a sbocciare come si deve.

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