Sicilia e letteratura. Sicilia e teatro. Sicilia e cinema. Quando si parla dei binomi con tali sublimi espressioni artistiche – specie nel secolo scorso – alla nostra cara isola, non c’è dubbio, viene sempre riconosciuto un ruolo di primissimo piano, sia che si guardi alla scena italiana sia che si prenda in considerazione il panorama internazionale. Curiosamente, tuttavia, lo stesso meritato riconoscimento fatica a manifestarsi prendendo in esame la produzione propriamente figurativa. Al di là di Guttuso, infatti, il ‘900 della pittura siciliana è avvolto da una densa nube di fraintendimenti e colpevoli dimenticanze. Eloquente, in tal senso, la paradossale vicenda del genio Vittorio Ribaudo, così come quella del Gruppo di Scicli, raramente celebrati con il dovuto entusiasmo per le innovazioni di cui si resero protagonisti. E se è vero che per ritrovare un consenso pressoché unanime sulle doti di un grande artista isolano bisogna tornare indietro fino all’ottocentesco Francesco Lojacono, non stupisce che un’altra, incomprensibile falla nella memoria critica – e di conseguenza collettiva – continui a rimanere tristemente insoluta. Pochi, infatti, associano alla Sicilia il terremoto concettuale e stilistico che contraddistinse la riflessione futurista, avviata da Filippo Tommaso Marinetti attraverso il celeberrimo Manifesto pubblicato su Le Figaro nel 1909. Ebbene, non soltanto l’isola fu una delle roccaforti più importanti del movimento – per di più col pregio di essere tra le poche al Sud – ma anche un laboratorio instancabile di innovazione, una palestra di grandezza che formò alcune delle migliori menti del secolo.

Fu a Catania, in seno alla redazione della Gazzetta della Sera, che Umberto Boccioni mosse i primi passi della sua fulgida carriera, iniziando a studiare disegno e illustrazione. La Sicilia tutta, d’altra parte, rappresentava una fonte illimitata e ideale di stimoli, pronta a sbocciare definitivamente di lì a poco con un vero e proprio triennio d’oro. Tra il 1927 e il 1929 artisti siciliani della scuola palermitana come Pippo Rizzo, Rosita Lojacono, Gigia Corona (friulana d’origine ma sposata con Vittorio Corona) e Giovanni Varvaro balzarono agli onori delle cronache e furono invitati ad esporre nelle sedi più prestigiose. In primis fu la volta della Mostra d’arte Futurista nazionale, poi della Biennale di Venezia su invito di Marinetti e sotto l’egida del grande scultore Antonio Maraini. Occasioni irripetibili di confronto e di scambio, dalle quali, ad ogni modo, i nostri pittori uscivano arricchiti ma convintamente fedeli alla propria, sicula originalità. Nelle visionarie prospettive urbane così come nella rivisitazione di classiche iconografie religiose, nell’armonia sapiente tra colori e scorci paesaggistici mozzafiato rimase sempre inconfondibile la sensibilità isolana, calda e dolcemente malinconica, titanicamente volta a fermare un istante percepito sempre più come irrimediabilmente sfuggente. Un’impresa ben sintetizzata dalla “profezia” dello stesso Rizzo: «Non esisteranno più i pittori, non perché non saranno degli ingegni o delle genialità vere, ma perché l’attività della vita svolgentesi tra i motori e l’elettricità, trasformerà e adatterà il nascente pittore ai bisogni della vita. E il quadro non sarà un bisogno della vita, tutta l’arte si ridurrà nell’arredamento dell’ambiente e in una semplice decorazione astratta. Esisterà l’arte applicata alle industrie. L’umanità non avrà più il tempo di guardare un paesaggio o un quadretto di genere, poiché la velocità della vita assorbirà il tempo e lo spazio».

Ma cos’è l’arte, in fondo, se non l’eterna sfida all’ordine naturale delle cose? Il superamento del limite umano? Lo strenuo tentativo di sconfessare l’impossibile? Questi stessi sentimenti animarono le imprese dei nostri conterranei. Che scelsero di rimanere in Sicilia nonostante il mondo avesse aperto loro le porte. Nonostante un notevole decentramento geografico rispetto ai centri d’arte futurista più floridi. Una scelta coraggiosa. Un investimento spirituale nella propria, inesauribile identità. Gesta ostinate, finite frettolosamente in uno scomparto impolverato. Nonostante l’avvertimento di Lia Pasqualina Noto nel 1934: «Noi viaggiamo molto, ma non “emigreremo” poiché crediamo oggi di avere il diritto di lavorare nella nostra casa senza essere perciò dimenticati».

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