La storia della cultura, talvolta, somiglia ad una giostra imprevedibile. Prima che il suo vorticoso girare venga messo in moto, sono molti quelli che riescono a salire. Ma altrettanti, se non addirittura di più, sono coloro che vengono lasciati a terra. Che nemmeno con un notevole slancio riescono ad appigliarsi a quell’attrazione che tanto meriterebbero di godere. Rimangono in disparte, ogni tanto salutati con sincero giubilo dai colleghi che prima o poi si aspettano di vederli unirsi alla combriccola. Eppure, per la maggior parte di loro, quel momento non arriva mai. La giostra chiude, i partecipanti fino ad un momento prima festanti se ne vanno. E loro restano lì, in quella piazzetta ormai spenta di ogni colore, priva della memoria che l’aveva animata. Di quanti illustri intellettuali questa potrebbe essere la parabola? Quanto genio e quanta sensibilità, come tracce sulla sabbia spazzate via dall’impeto delle onde, sono stati relegati ad un inspiegabile e collettivo oblio? Troppi persino se si tentasse di farne un elenco sommario. Non si può ignorare, d’altro canto, che spesso il sinonimo più prossimo di eccezionalità sia solitudine. Solitudine umana, certo, ma anche artistica, d’ingegno. Ne sa qualcosa, guardando alla Sicilia, il nostro Antonio Pizzuto, palermitano classe 1893 che qualcuno, tessendone le lodi, arrivò a definire come uno dei più grandi irregolari del ’900. Le grandi linee della sua biografia, per certo, già ne fanno intuire la peculiarità: fu, infatti, nel travagliato periodo fascista, un uomo di spicco delle forze dell’ordine, a cui dedicò la propria vita mantenendo costantemente, a dispetto delle inevitabili pressioni esercitate dal regime, un’incrollabile ed incorruttibile dignità. Fu prima poliziotto – vicecommissario presso quella che in futuro sarebbe diventata l’Interpol – e poi questore. E fu, soprattutto, un raffinatissimo scrittore d’avanguardia, uno sperimentatore ardito, capace di eseguire complesse acrobazie attraverso il linguaggio, un pensatore impegnato e profondo, che scelse di ritirarsi a vita privata ancor prima dei 60 anni, affascinato da quello stesso mondo letterario in cui aveva già cominciato ad imprimere il suo segno.

Tracciare i confini della sua poetica, in effetti, è un’operazione piuttosto complessa. Nel suo stile distruttivo, coltivato tra un’indagine e l’altra, fatto di neologismi e connessioni semantiche dalle tendenze quasi astrattiste, convivevano influenze multiformi, talvolta persino contraddittorie. C’erano il multiculturalismo e il poliglottismo acquisiti nei viaggi internazionali compiuti per lavoro; c’erano la filosofia di Hume e quella di Kant, del quale Pizzuto portò in Italia i Fondamenti della metafisica dei costumi; c’era l’immortalità dei classici greco-latini, che il nostro leggeva in originale, premurandosi anche in questo caso di tradurne la lezione: da Platone a Seneca, passando per Tucidide, Pizzuto incamerava quelle parole così sedimentate, così fresche nel loro arcaismo da apparire ancora estremamente consone per il contesto del ‘900. E c’era, naturalmente, il meglio della letteratura moderna: Pizzuto si dilettava nella lettura di Shakespeare, di Proust e soprattutto di Joyce, dal quale rimase più volte folgorato. Proprio all’autore dell’Ulisse si rifanno alcune scelte stilistiche, tra le quali spicca l’utilizzo di un simil-flusso di coscienza. Un calderone di suggestioni, insomma, da cui nacquero opere senza compromessi, sui generis, inserite in una nicchia ristrettissima: Sul ponte di Avignone (1938), Signora Rosina (1959), Si riparano bambole (1960). Opere all’apparenza sfilacciate, prive di intreccio o quasi, con protagonisti progressivamente sempre più assorbiti dell’accadere delle vicende, con frasi che si spingono fino alla totale assenza dei sostantivi. Opere che attirarono l’attenzione di Arnoldo Mondadori e del celebre critico e filologo Gianfranco Contini, tra i pochi e veri amici di Pizzuto, che nonostante la fama crescente preferì sempre il silenzio della riservatezza. Dello scrittore palermitano, condensando mirabilmente i suoi pregi, Contini ebbe a dire: «è un autore traumaticamente perfetto».

Ma presto il fuoco di quell’insolita grandezza va eclissandosi. Sotterrato da logiche non sempre pienamente comprensibili. Gli ultimi anni trascorsi a combattere la miseria. Qualche ricordo di facciata, dopo la sua morte nel 1976: poi, il vuoto. Scriveva così, in un articolo pubblicato su La Repubblica il 16 maggio 1998, Francesco Erbani: «Gli ultimi anni del commissario-scrittore sono tristi, perché Pizzuto è pressato dal disagio economico. Contini resta fino alla fine un interlocutore privilegiato. Tenta di ritrarsi di fronte all’invadenza epistolare di Pizzuto, che gli scrive anche tre lettere al giorno, implorando raccomandazioni e premi. Il loro rapporto desta malumori: Pasolini scrive a Contini lamentando di essere stato trascurato a causa di un “pensionato”. Ma a poco a poco l’attenzione sull’autore della Signorina Rosina si allenta e inizia un lungo tunnel fatto di indifferenza ai limiti del dileggio». Dall’ironia all’indifferenza il passo è breve. E chissà che qualcuno, prima o poi, nell’indifferenza in cui ancora sono confinate, non vada a ripescare le tortuose fantasticherie di Pizzuto.

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