Ultimamente, alla morte, ci penso spesso. Deve essere per via di qualche sogno che ho fatto, di qualche film che ho visto. Sta di fatto che ci penso prima di pranzo, dopo aver fatto l’amore, durante una passeggiata. Perché sempre più spesso ho l’impressione che, nonostante tutte le sue brutture, questo mondo un giorno mi mancherà.

E allora inizio a riflettere su quel giorno, su cosa succederà a chi resterà dopo di me, su come sarò io dopo essere arrivata fino alla mia data di scadenza, ma soprattutto su quanto sia prezioso e bello e commovente ciò che ho intorno in questo momento. Sarà l’aria dell’estate che volge al termine – o sarà che forse, e questa è la verità, mi è rimasta impressa una frase contenuta nell’esordio letterario di Clelia Attanasio, La strada degli ulivi, pubblicato da Eretica Edizioni:

«Quando ci si sposa, per gli amori lasciati indietro non c’è altro da fare che rendersi conto di non essere unici: è un meccanismo a ciò che accade quando si pensa alla morte: sapere che la vita continua anche oltre noi è la più angosciante delle scoperte».

Una considerazione puntuale e toccante, che pur arrivando solo a qualche pagina dell’epilogo ha in sé il nucleo centrale dell’intera storia. Perché i protagonisti di questa vicenda familiare ambientata a Napoli e nei suoi dintorni, Ciro Chirichella e la sorella Angela, con la morte ci hanno a che fare fin dall’inizio, dovendo accettare che la loro madre se n’è andata per sempre.

Sono adulti, i due, e hanno delle vite piene e diversissime fra di loro, eppure non possono fare a meno che pensare al passato, confrontarsi, scoprirsi di nuovo bambini, quando si rivedono per i funerali e tutto il resto.

Ed è da qui, dalla presa di coscienza che il mondo continua ad andare avanti anche per loro, che prende il via un disvelamento sempre più sorprendente, sempre più delicato, in cui la verità sul rapporto fra i loro genitori viene inesorabilmente a galla e li costringe a fare i conti con un amore fuori dagli schemi, con una madre non sempre capita fino in fondo, con una vita che li ha lasciati orfani di verità prima ancora che se ne accorgessero.

Un testo breve ma travolgente, quello di Clelia Attanasio, che dimostra una maturità concettuale e una precisione linguistica notevoli, ma che più di tutto ci invita a fissare negli occhi la morte, a starle accanto, a sentircela addosso. Lasciando da parte la paura, lo sgomento, l’inquietudine. E provando a dialogare insieme a lei, oltre che con i protagonisti.

Perché da questo confronto vis-à-vis, se prestiamo attenzione, riusciamo di fatto a ricavare spunti, direzioni, tarli. Come quello di Ciro, che non può più dimenticare ciò che ha scoperto sulla sua famiglia d’origine ed è pronto a tutto perché almeno ad Angela siano risparmiati certi dettagli. O come il mio di tarlo per la morte stessa, che non se n’era mai andato ma che adesso è tornato alla carica, sollecitato dalle sentenze dell’autrice.

Un tarlo che non fa male, ma che al contrario ci può permettere di godere in maniera più consapevole e più piena del presente. Un tarlo che rimette tutto in prospettiva, che ci fa interrogare sui misteri fuori dalla nostra portata, che ci aiuta a tornare a contatto con ciò che siamo, non solo con ciò che abbiamo.

Dopotutto, Martin Heidegger sosteneva che «La questione della vita non si appiana mai se non esistendo», e romanzi come La strada degli ulivi sembrano ricordarcelo e incoraggiarci a non ignorare l’argomento, permettendoci di dedicare la nostra curiosità, il nostro interesse e il nostro sguardo anche ai temi più spinosi, e di imparare a maneggiarli con la cura e la consapevolezza necessarie.

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