È da maggio scorso che io e il mio compagno stiamo cercando casa. Abbiamo fissato decine di visite, valutato diversi appartamenti, imparato a memoria non so quante planimetrie. Col passare dei mesi ho iniziato a familiarizzare con parecchi aspetti di questo mondo, capendo al volo se gli spazi sono distribuiti in modo intelligente e come conviene di volta in volta sfruttarli.

Ho perfino scaricato un’applicazione di simulazione d’arredo, con la quale mi è sembrato di fare finalmente un upgrade rispetto al gioco di The Sims per cui andavo così d’accordo da ragazzina. «Qui metterei divano e tv, qui il letto, là una libreria»: parlo così con il mio compagno, indicandogli pareti che ancora non appartengono alla nostra quotidianità.

Sto pensando a tutto, da maggio scorso, dagli infissi all’esposizione, dai pavimenti al controsoffitto, dagli impianti alle misure antisismiche, dalle porte all’allarme antifurto, ma all’arredamento in quanto tale – forse – non ci ho mai pensato davvero. Me ne sono accorta ieri, facendo caso agli articoli che uso: il letto, una libreria, o addirittura tv, direttamente, senza altre specifiche.

Perché cosa vuoi che cambi, nella sostanza, fra un modello Ikea e uno Maison du Monde. Cosa vuoi che mi interessi, se troviamo uno sconto da Leroy Merlin o da Mondo Convenienza. O almeno, cosa vuoi che me ne importasse, fino a ieri. Perché ieri è stato il giorno in cui mi è capitato fra le mani Anna Castelli Ferrieri, una biografia dedicata all’omonima architetta e designer italiana scritta da Chiara Sfregola per Giulio Perrone Editore, e d’un tratto la mia visione è cambiata da così a così.

Io, che non avevo mai prestato attenzione al design, l’ho visto trovare forma nella mente di una donna rivoluzionaria e in anticipo sui tempi, che ragionava sugli spazi in maniera insolita, usando materiali all’epoca impensabile, osando con i colori, reinventando le forme e le funzioni di quelli che ribattezza «accessori d’arredo», dando loro una dignità e una categorizzazione nuova.

Io, che non ero ancora arrivata allo step del dove, del cosa e del come, ho visto sfilare davanti a me centinaia di alternative, e diminuire sempre di più via via che andavo avanti. Perché fra la storia curiosa di Castelli e la prosa dinamica, interattiva e densa di suggestioni di Sfregola, ho capito improvvisamente che ci può essere più spessore nel mobiletto piazzato tra una doccia e un bidet che nelle mura perimetrali di un edificio.

Nel cercare i punti di contatto fra la propria vita e quella della professionista di cui parla, Chiara Sfregola ci tiene infatti a coinvolgere chi legge, a trascinarci fra vite e idee solo apparentemente lontane fra loro, e ci racconta del suo primo incontro con il design costringendoci a chiederci a quando risalga il nostro, e da cosa sia stato caratterizzato.

Il mio, come anticipavo, ha la forma di un libro di 119 pagine, che è al tempo stesso un’ode alla genialità e un incoraggiamento a non trascurare il bello e il funzionale, ma specialmente la propria vocazione. Anche quando è controcorrente, osteggiata da chi ci circonda, lontana dall’immaginario comune.

D’altronde, come scrive l’autrice, se vogliamo trovare la nostra voce è solo il desiderio che ci può condurre verso i luoghi a cui apparteniamo, e a permetterci di abitarli con un approccio inedito: a quel punto sapremo per certo come muoverci, come sentirci a nostro agio al loro interno e soprattutto come riempirli e farli nostri, dopo una vita passata a rimandare per inesperienza.

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