Quando conosco qualcuno e spiego che di mestiere per lo più scrivo, di tanto in tanto mi capita di sentirmi rispondere: «Ah, ma sai che scrivo anche io?» e di notare che il mio interlocutore inizia a tessere le lodi della scrittura come terapia, come momento di evasione, come strumento per conoscersi meglio. «Anche perché», aggiungono spesso, «io scrivo prima di tutto per me stesso».

E a me verrebbe di approfondire la questione, di capire come si concilia per loro l’esigenza di esprimere la propria interiorità con quella inevitabile di concepire la scrittura come comunicazione, come ponte fra sé e il mondo esterno, fra l’io e l’altro. Solo che a volte non sono sicura di addentrarmi in un terreno già familiare per chi mi ascolta, e così rimango in silenzio.

O meglio, lo facevo fino a qualche mese fa, cioè fino a prima di imbattermi in un manuale pubblicato da Alessandra Minervini per Les Flâneurs Edizioni alla fine del 2021: si chiama Una storia tutta per sé. Raccontare sé stessi per essere più felici, ed è l’unico manuale per principianti interessati alla scrittura autobiografica che sia mai riuscita a portare a termine.

Il motivo è presto detto: a differenza di tante istruzioni concepite con la pancia, o per la pancia di chi leggerà, quello di Minervini è invece un compendio di esercizi, di riflessioni e di stimoli che riesce a spiegare dove finisce la necessità di dare sfogo alla propria espressività e dove comincia l’importanza di formulare pensieri comprensibili anche a un occhio esterno, rifacendosi a oggetti, a episodi, a parole o a stati d’animo che vanno riordinati prima di trasformarsi in inchiostro.

L’autrice ha una lunga esperienza come docente in laboratori di scrittura, oltre a essersi formata con maestri di tutto rispetto – e basta sfogliare le prime pagine della sua ultima pubblicazione per averne la certezza. Una storia tutta per sé ci mette infatti davanti a 138 pagine di riferimenti letterari, di citazioni d’autore e di esempi coltissimi, che permettono con una semplicità sorprendente di non lasciare vagare la penna sul foglio in maniera affrettata, criptica o comunque poco ponderata.

«C’è chi scrive in condizioni caotiche», osserva Minervini. «Anzi, le preferisce. Il rumore intorno, comprese le persone che accanto fanno tutt’altro, possono essere stimoli creativi. Magari si fa prima, magari si sente la fretta e la pressione in maniera più produttiva. Per me non è così. Se sto scrivendo una cosa, l’attività che realmente faccio è pensarla». E proprio pensare è quello che si viene spinti a fare man mano che si procede nella lettura, o nella scrittura incoraggiata dai suoi input costanti.

Pensare a come riuscivano Colette o Cesare Pavese a parlare con fredda precisione, per esempio, o a come oggi l’autofiction si sia evoluta grazie a figure iconiche come quelle di Annie Ernaux e di Claudia Durastanti, per non parlare prima ancora di Giulia Carcasi. Pensare a come riappropriarsi di memorie sbiadite, magari, di dialoghi interiori o di luoghi e giorni del passato per dare il via a una narrazione efficace, coerente e trascinante.

Pensare, insomma, a come trovare una risposta a quella domanda che fino a poco tempo fa io faticavo a formulare ad alta voce: «Anche se scrivi solo per te stesso, che ruolo hanno per te la cura del testo, la sua coesione, i suoi significati più reconditi?». Ora so che c’è un libro da cui posso consigliare di partire per ragionare con onestà sull’argomento, un piccolo scrigno di consigli e di soluzioni da cui farsi accompagnare nel processo creativo.

A quel punto, come anticipa il sottotitolo, forse raccontare sé stessi per essere felici non sarà più un obiettivo così peregrino. Porsi interrogativi complessi e cercare nuove strade per risolverli non sembrerà inutile, assurdo o fuori portata. E parlare di sé – o per sé, o con sé – mentre si scrive magari sarà finalmente un’esperienza da vivere con più consapevolezza e con meno approssimazione.

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