I libri ti spiegano come ordinarli per colore, per significati, per case editrici. Nessuno, però, ti spiega come dis-ordinarli quando fai un trasloco. Così l’ho imparato da me, la settimana scorsa, nel momento in cui l’amica che mi ha aiutato a impacchettare la mia roba mi ha detto: «Passami un libro piccolo».
Avevo raggruppato nella mensola varie pubblicazioni mitteleuropee in ordine cronologico, e ho dovuto fissarle per un lungo attimo prima di optare per Siddhartha. Il mio primo libro “da grandi”, divorato per la scuola quando grande non lo ero ancora diventata, ma si pretendeva che sapessi scriverci sopra una relazione. In effetti, catapultandomi in una cultura e in un’epoca totalmente estranee a quella siciliana degli anni Duemila, mi aveva insegnato come funzionavano il quartiere in cui vivevo, la famiglia da cui venivo e la classe liceale di cui facevo parte meglio di tanti sussidiari e lezioni di storia.
La sua edizione tascabile lo aveva appena trasformato in un libro “piccolo”, ma il suo ruolo formativo e il suo linguaggio poetico restavano imponenti: «L’amore mi sembra di tutte la cosa più importante. Penetrare il mondo, spiegarlo, disprezzarlo, può essere opera di filosofi. A me importa solo di poterlo amare», ho scoperto di avere sottolineato anni prima, non a caso.

Un discorso diverso si è posto per il Don Chisciotte, invece, Quello commentato, con il testo a fronte spagnolo, che era stato protagonista di un mio esame universitario. Quello da cui avevo imparato, stavolta alle soglie dell’età adulta, a usare l’ironia e a distinguere una piatta e vincolante realtà da una rocambolesca e vitale follia. Quello in cui ogni parola era divertimento, riflessione, stupore, e del quale si perdeva il conto delle pagine come si perdevano la noia e la banalità.
Mi è toccato passarlo alla mia amica un paio di ore e di scaffali dopo, quando siamo arrivate ai testi spagnoli e i pacchi rimasti si sono fatti meno capienti. Appena l’ha visto, lei, ha riso istericamente.
«A questo mi rifiuto di fare posto».
«Ma non posso non portarlo», ho mormorato allora, accarezzandogli il dorso, «è una questione di principio».
Lo stesso principio per cui per tutto il tempo ci eravamo scambiate consigli e citazioni commoventi, ampliando il nostro orizzonte letterario mentre tagliavamo pezzetti di scotch. Lo stesso principio per cui avevo ripercorso minuto dopo minuto la mia evoluzione cognitiva, il mio svago culturale di una vita, le poesie recitate a memoria, i saggi diventati parte integrante dei dibattiti che ho a cuore. Lo stesso principio, avrebbe detto un ingegnoso idalgo, per cui «La miglior salsa del mondo è la fame», specialmente se riguarda carta e inchiostro.

Dopotutto, i libri ti spiegano come comprarli, come pulirli, come impilarli e perfino come amarli. Ma nessuno ti spiega come smontarli, come farne a meno, come considerarli per davvero solo oggetti, prima di recuperarne il valore intrinseco. Nessuno ti dice che dietro a ogni copertina c’è pure la storia di chi quel volume l’ha scelto, l’ha trovato, l’ha regalato, l’ha conservato.
O forse te lo dicono, ma non abbastanza. Forse ti consigliano tanti libri, ma non ti consigliano altrettante storie sui libri, e con i libri dentro.

Ecco, questa rubrica nasce con l’intento di rimediare. Di capire non perché un libro sia importante per i soliti motivi, ma perché (e in che modo) possa essere importante per qualcuno, e poi a catena per decine di altri qualcuno, tra i quali, magari, un giorno capitiamo anche noi.

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