Come mi sentivo, a vent’anni, quando ero nel bel mezzo del mio primo mal d’amore? O meglio: come mi sono sentita fino a qualche anno fa, quando certe turbolenze hanno bussato di nuovo alla porta? Come ci sentiamo, un po’ tutti, quando è a noi che arriva la patata bollente di un sentimento totalizzante, ma che ci rende infelici?

Me lo sono chiesto per l’ennesima volta nel leggere Vuoto d’aria, l’esordio impressionante di Clémentine Haenel per Gallimard a soli venticinque anni, gli stessi che avevo io durante l’ultima, trascinante, esperienza sentimentale finita prima ancora di cominciare. Perché, se già avevo l’impressione di essere stata io per prima fuori misura, in quell’occasione, muovendomi tra le pagine di questo breve romanzo francese mi è parso di imbattermi in una protagonista ancora più estrema, ancora più incosciente.

Una ragazza poco più che maggiorenne, nel cui animo la delusione si trasforma presto nel desiderio di smarrirsi, nella speranza di far soffrire chi la circonda nella stessa misura in cui si sente ferita lei. La ragione della sua insoddisfazione è un uomo sposato, chiamato X, che d’un tratto smette di volere avere a che fare con lei. Così, quantomeno, si deduce dal suo racconto sconnesso e tremendo, dalla sua fame di violenza e di affetto, dalle sue giornate passate in casa o nella metropolitana di Parigi.

Vuoto d’aria, infatti, proprio come fa già presupporre il titolo, non vuole procedere in linea retta dall’inizio alla fine. Al contrario, vuole dare voce a un senso di soffocamento imprevedibile, intermittente, che quasi fa sperare alla protagonista di sparire da un momento all’altro dalla faccia della terra. E se, appunto, a prima vista potrebbe sembrare disturbante ed esagerato, nel suo modo di descrivere il dolore attraverso l’ospedalizzazione e l’assunzione di psicofarmaci, dall’altra parte il testo ci ricorda una verità che a volte vorremmo quasi cancellare dalla nostra memoria: non c’è scelta, non c’è pensiero, non c’è parola che in certi giorni riesca ad ammansire i primi mali d’amore.

Si perde la dignità, ci si sforza di dare un senso all’ingarbugliata matassa della realtà attraverso la scrittura, si riesce perfino a studiare, di tanto in tanto, o a parlare al telefono. Eppure, in sottofondo, c’è un tarlo che non ci lascia in pace, che pretende la nostra attenzione e che è in grado di divorare la nostra, lasciandoci sull’orlo di un marciapiede sconosciuto davanti a un uomo che non pensavamo di avere già baciato per dimenticarne un altro.

Vuoto d’aria non è il primo romanzo a richiamarci alla mente i giorni in cui la nostra “educazione mentale” passava dalla sregolatezza, dalla maleducazione, dall’alternanza di lamenti ed euforie temporanee. Però, a differenza dei testi che l’hanno preceduto, ambienta la sua storia a Parigi, ricordandoci che anche tutte le nostre storie sono ambientate in una qualche città dell’amore, pronta a trasformarsi in un mostro tentacolare appena l’oggetto del nostro desiderio si allontana dal nostro orizzonte.

E ancora: Vuoto d’aria evita di descrivere, di spiegare, di soffermarsi sui fatti. Procede per salti logici, per stati d’animo, per allusioni. Restituendoci il senso di stordimento che, almeno una volta, abbiamo provato sulla nostra pelle senza riuscire a comunicarlo agli altri, e chiedendoci di capire gli impulsi disillusi di una post-adolescente anche mentre siamo a corto di istruzioni. Dopotutto, questo suo vagare ai margini della vita adulta lo abbiamo conosciuto, lo abbiamo attraversato.

E se si tratta di un rito di passaggio che ancora oggi risuona nella nostra testa è perché un segno, da qualche parte, ce lo ha lasciato – lo stesso segno su cui insiste ora Clémentine Haenel, a modo suo, e grazie al quale è in grado di farci porre ancora una volta un paio di domande che, a lungo, avevamo forse dato ormai per scontate.

Il nostro impegno è offrire contenuti autorevoli e privi di pubblicità invasiva. Sei un lettore abituale del Sicilian Post? Sostienilo!

Print Friendly, PDF & Email