Quando è scoppiata la guerra in Ucraina, il 24 febbraio di due anni fa – che ricordo a memoria per una triste coincidenza, e cioè che si tratta del giorno del mio compleanno –, alcune delle testate per cui collaboro mi hanno chiesto fin dai primi giorni se volessi intervenire sull’argomento, scrivendo magari un editoriale o un approfondimento dal momento che da dieci anni ormai mi occupo di studiare la lingua e la cultura russa, nonché in parte quella slava a più ampio raggio.

E io, da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, ho sempre detto di no. Non ero abbastanza competente, abbastanza distaccata, abbastanza lucida. Non ero nemmeno abbastanza capace, probabilmente, e ho mancato di aggiungere che avevo paura. Paura di gettarmi nella mischia, fomentando un dibattito spesso sterile, vuoto, controproducente o comunque non in grado di muovere gli animi, di informare in profondità, di andare al di là delle divisioni da tastiera fra bianco e nero, fra buono e cattivo, fra giusto e sbagliato.

Se temevo questo tipo di semplificazioni e di appiattimenti, anche e soprattutto da parte mia al momento di approcciarmi al tema, e se dall’altra parte non sapevo da dove cominciare per abbracciare la vastità e la complessità delle cose da dire e da evidenziare, è stato perché secondo me, con le guerre, c’è da andarci molto piano. Prima ancora di studiarle, di capirle, di spiegarle, andrebbero smantellate alla radice, anche concettualmente, e viste nelle loro contraddizioni in termini, nella loro assurda corsa al profitto, al predominio, a una qualche forma di colonizzazione.

E, dopo averlo fatto, c’è comunque da capire come chiamarle. Come descriverle, come smontarle anche linguisticamente. Come prenderle in giro, perfino, ma con rispetto. Come riconoscerne la portata e l’orrore senza renderle epiche, come criticarle restando super partes, ma non per questo smettendo di essere umani che osservano morire inutilmente, ingiustamente, a scopi manipolatori, milioni di altri esseri umani.

A quel punto, se davvero si riesce a rispettare ogni punto di questo ideale elenco puntato, si capirà che non sono io la persona giusta a cui dar voce in merito, né probabilmente la stragrande maggioranza di chi strappa il microfono dalle mani a qualcun altro e ci impone la propria visione delle cose. Motivo per cui, se una piccola percentuale merita di essere ascoltata, conosciuta e condivisa con chi ci circonda, più che affannarsi a scrivere è più importante soffermarsi a leggere. A cercare le parole giuste, la persona giusta per metterle in fila, il testo giusto da suggerire.

La copertina del romanzo

E io, dopo quasi tre anni dallo scoppio della guerra in Ucraina, e mentre imperversa come non mai la guerra nella striscia di Gaza, un nome da segnalare finalmente l’ho trovato. È quello della scrittrice tedesca Irmgard Keun (1905-1982), o meglio, della protagonista del suo romanzo Kully, figlia di tutti i paesi, di recente portato in libreria dall’Orma Editore nella traduzione di Stefania De Lucia.

Perché Kully ha lo sguardo di una bambina e l’irriverenza di un’anziana, pochi anni alle spalle ma zero peli sulla lingua, uno sguardo disincantato sul mondo che le permette di setacciarlo senza odiarlo, di contestarlo senza intossicare né sé stessa né chi la legge, e specialmente una sensibilità fuori dall’ordinario, grazie alla quale le sue parole risultano folgoranti, toccanti, severe e suggestive al tempo stesso, in un mélange di rivelazioni, di invettive e di supposizioni a dir poco irresistibile.

Il contesto in cui vive è quello di una Germania dilaniata dall’avvento del nazismo, da cui la sua famiglia è costretta a scappare, per andare in esilio verso altre nazioni. Sono luoghi sempre diversi fra loro, spesso insoliti, sorprendenti, ai limiti del nonsense. E sono luoghi in cui Kully cresce, impara, fa domande, cerca risposte che il suo tempo può darle a stento, tra difficoltà finanziarie e necessità di adattarsi, frontiere in cui rigare dritto e documenti in perenne cambiamento.

È grazie a lei se raccontare la guerra torna a essere possibile, dopo tanti discorsi fumosi e retorici a cui forse stavamo ormai facendo l’abitudine. Grazie a lei si rabbrividisce e si sorride, si scuote la testa e poi si annuisce in silenzio, convinti che proprio Kully abbia trovato la chiave di volta per dare un nome a quello che – per noi – era sempre rimasto troppo ingiusto da etichettare, troppo estremo da definire, troppo grande da comprimere fra le righe della pagina.

Un romanzo fatto di incertezze, famiglie divise, aspettative, violenze. Un romanzo che non mi ha più fatta sentire in colpa per il mio silenzio, per la mia fatica a trovare le parole, e che con la sua tremenda delicatezza ci segna fin dalle prime pagine, ricordandoci che «quando le cose ci vanno male [come quando si vive in mezzo a un conflitto armato, ndr] nessuno ci ama o ci sopporta a lungo», anche se forse sarebbe proprio questa la cosa più importante da continuare a fare.

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