«Cosa accade quando una scrittrice scrive su un giornale riguardo a un fatto di cronaca? E che succede quando a un artista della fotografia viene commissionato uno scatto per raccontare un evento?» A rispondere a questi interrogativi posti da Giuseppe Di Fazio (presidente comitato scientifico Fondazione DSe) sono stati tre talenti rappresentanti di tre generazioni diverse: Silvana Grasso (scrittrice), Eva Luna Mascolino (Campiello giovani 2015) e Giovanni Chiaramonte (fotografo e docente IULM, Milano). Presenti all’incontro “Letteratura, giornalismo e fotografia”, organizzato nell’ambito del workshop “Il giornalismo che verrà” e tenutosi l’11 ottobre al Monastero dei Benedettini, i tre hanno messo in luce quanto sia difficile, ma affascinante. andare al di là della semplice notizia con la scrittura o con una foto.

ALLA RICERCA DELLA PAROLA PERDUTA. «La scrittura ha grandi potenzialità e il vero giornalista ne è consapevole, sa quanto possa manipolare i suoi lettori attraverso la parola, soprattutto se si è guadagnato la loro fiducia»: così parla Eva Luna Mascolino, laureata in lingue e scrittrice, per la quale il giornalismo è una delle tante strade intraprese. «Cosa hanno in comune narrazione, scrittura giornalistica e traduzioni? Sono tre forme di comunicazione: – continua la giovane ospite – la narrativa per me è uno sfogo di fantasia, il giornalismo è ascoltare e dare voce a chi non ne ha, le lingue sono la voce del mondo». Quasi a voler dare prova concreta di quanto detto, la Mascolino racconta un’esperienza di vita personale che le ha insegnato quanto sia difficile trovare le parole e comunicare: «Dopo aver studiato il russo, sentivo che la lingua non era ancora viva in me e decisi di andare in Russia alla ricerca della parola vera. Lì mi resi conto di quanto fosse difficile comunicare: mi sentivo muta perché parlavo in maniera forzata e mi sentivo sorda perché la gente non era loquace, non aveva quella sete di cultura che porta a condividere idee e parole con chi viene da un altro paese. In questo contesto di povertà culturale mi sono resa conto di quanto la continua ricerca della parola sia il fondamento dell’informazione, attiva e passiva».

UNA LINGUA UNICA E PERSONALE. Per quanto oggi le parole non le manchino, anche Silvana Grasso ha ricordato le sue umili origini da “ignorante” (come lei stessa si è definita) raccontando come abbia costruito da sola il proprio vocabolario. «Signor Giudice, mi dichiaro colpevole di clandestinità a bordo di un giornale. Io però sono solo esecutore, il mio mandante è Giuseppe Di Fazio!»: irrompe così sulla scena la scrittrice, che con teatralità ha accusato il giornalista di averla persuasa a scrivere sul quotidiano “La Sicilia” commentando fatti di cronaca per andare oltre la fredda notizia. «Nonostante abbia scritto molti articoli, – afferma la Grasso – per dignità non ho mai preso il tesserino da giornalista: la mia infatti non è una scrittura giornalistica, non è l’omogeneizzato dato in pasto dalle scuole, ma è una scrittura filologico-narrativa che ho costruito da sola, partendo dal greco, e ho riversato nei giornali». Derisa da bambina per la povertà del suo patrimonio linguistico (un centinaio di parole tra italiano e siciliano), la Grasso ha definito lo studio del greco al liceo un’“epifania”: «Mi innamorai del greco, di quei paradigmi sensuali come una danza araba. Divenni il terrore dei professori ignoranti del mio liceo. Ho scavato nel greco delicatamente con le mani, non con la ruspa, che avrebbe distrutto tutto. Ho conservato in me un posto per i classici del passato e ne ho tratto fuori la mia lingua, forgiandola in maniera unica».

FISSARE LA VITALITÀ DI UN ATTIMOUna lingua unica per raccontare l’unicità degli eventi: questo il commento di Chiaramonte alle parole della Grasso, per quanto egli racconti attraverso un altro strumento, la macchina fotografica. «Come la profondità della scrittura dipende da chi impugna la penna, così la forza di una fotografia dipende da chi scatta. Il fotografo deve diventare lui stesso l’obiettivo dal quale inquadrare il soggetto per coglierne davvero la vita» afferma il docente. «La vera comunicazione – sostiene Chiaramonte – deve essere in grado di attraversare ilkaos in cui viviamo e giungere alla gente, con le parole o con le foto. La narrazione fotografica deve ricercare la forza della persona viva e riprodurla, renderla eterna». Non tutti però concordano con l’idea che una foto possa rendere fisso per sempre un attimo: «Io rinnego la fissità della foto, per me è dinamica: una foto rinasce ogni volta che qualcuno la guarda», questa è l’opinione della Grasso. A cui segue la chiosa di Chiaramonte: «Come la lingua, anche la foto è strumento di memoria: perché non sono stati i Giapponesi a inventare la fotografia, nonostante poi tecnologicamente ci abbiano superato? Perché in Giappone non esiste il culto della memoria, per loro l’istante è provvisorio e la vita è oblio. Io invece ritengo che una buona foto immortali per sempre la singolarità di un evento».

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