Ho vent’anni, presento la domanda per il mio primo scambio Erasmus e la burocrazia mi incastra. Ci sono da compilare moduli ai limiti dell’assurdo in tempi inesistenti, e nel selezionare la categoria della mia borsa di studio (concetto il cui significato ancora mi sfugge) flaggo l’opzione A anziché l’opzione B andando un po’ a naso, un po’ a senso.

Non immaginavo che l’una opzione ti permettesse di candidarti per alcune mete e che l’altra te ne impedisse l’accesso, così nonostante sia la prima in graduatoria per i Paesi francofoni non posso scegliere di andare a Parigi, come sogno da una vita. L’unico altro centro urbano disponibile in Francia è Besançon, che non ho mai sentito nominare, e pur di non perdere la mia occasione accetto.

«È una sensazione strana trovarmi agli imbarchi di un volo per un viaggio che non avevo mai considerato di programmare, in una città dalla quale non so bene cosa aspettarmi e che, nonostante la mia diffusa indifferenza, è stata così determinante nella mia formazione personale». Perché di Besançon, come poi scopro, è originario Victor Hugo, lo scrittore che per primo mi ha fatto appassionare alla Francia e che mi ha spinto a scegliere questa lingua di studio alle medie, al posto dello spagnolo.

E perché sempre di Besançon è Michel Carré, il librettista che fu autore dei racconti di Hoffmann insieme a Jules Barbier, pièce teatrale da cui è stato tratto il libretto della più famosa opera di Jacques Offenbach che mi ha fatto compagnia per gran parte dell’infanzia. Insomma, fra scoperte storiche ed eventi culturali, comunità multietniche e vivacità universitaria, a Besançon alla fine mi sono sentita a casa.

Ma la storia della mia partenza e lo stupore con cui sono andata incontro a quel trasferimento sono rimasti impressi nella mia memoria al punto che scovare in un libro le parole che ho citato poco sopra me li ha subito riportati alla mente. Sì, perché «È una sensazione strana trovarmi agli imbarchi di un volo…» è una frase che viene da un contesto diverso, anche se forse poi neanche troppo.

L’ha scritta Giuseppina Borghese in A Manchester con gli Smiths, un volume fresco di stampa edito da Giulio Perrone, che nel sottotitolo viene definito Un walkabout musicale. In linea con le altre opere della collana Passaggi di Dogana, in effetti, l’esperimento letterario di Borghese non si limita a portarci in un luogo di cui ci dà qualche curiosità turistica, accompagnandoci piuttosto in un’esperienza a 360°, che lega la vita della città a quella dell’autrice, e ai brani degli Smiths.

Con una colonna sonora sempre in testa e la meraviglia nello sguardo, Borghese ci insegna quindi a guardare un posto nuovo con attenzione e interesse, perfino quando non pensavamo di poterlo conoscere così presto o non sapevamo fino in fondo cosa potesse riservarci. È grazie a questo approccio che Manchester diventa tridimensionale fra le pagine, animandosi di personaggi e di strade, di incontri e di differenze culturali, aprendoci le sue porte con un entusiasmo e una personalità davanti a cui è impossibile restare indifferenti.

Certo, qui il sottofondo degli Smiths – che in realtà non finiscono mai in secondo piano – fa la differenza, dal momento che il cammino di Borghese è legato a doppio filo allo spessore dei loro testi, alle vicissitudini del loro frontman, all’impatto del loro messaggio, in un omaggio profondo ed evocativo che anziché trasformarsi in idolatria dà ispirazione e suggestioni continue.

Ma più in generale rimane vero che la bellezza delle mete che non stavano ancora nel nostro orizzonte, e che però si rivelano legate al nostro passato e al nostro presente più di quanto credessimo, risiede proprio nella loro capacità di trascinarci su una giostra di canzoni e di parole, come A Manchester con gli Smiths ci conferma e ci ricorda con grande eleganza.

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