C’è chi pensa che la Sicilia sia fatta da chi in questa terra ci è nato. Io, invece, penso che sia fatta soprattutto da chi in questa terra decide di abitare, di restare, di lottare. Un po’ come se siciliani non si fosse solo (e subito) per diritto di nascita, come se l’attaccamento a certi luoghi derivasse in realtà dalla scelta di frequentarli nel corso del tempo.

Ci ho riflettuto perché di recente mi è capitato fra le mani un volumetto pubblicato dalle Edizioni Clichy nella collana Sorbonne, che analizza e racconta la portata rivoluzionaria di alcuni personaggi del Novecento impegnati a «educare gli ultimi, dare loro la consapevolezza della propria capacità e potenzialità, invertire la percezione pubblica del loro ruolo sociale e culturale».

Più nello specifico, si tratta di un’accorata e accurata biografia di Danilo Dolci a cura di Giovanni Ceccatelli, e che ha come sottotitolo proprio La Sicilia dei poveri cristi. Il sociologo, educatore, poeta, attivista ed educatore, infatti, è nato a Sesana (in territorio ora sloveno) nel 1924, ma poi dal 1952 ha vissuto e operato nella Trinacria fino alla fine dei suoi giorni, non tanto per via dei suoi legami di sangue, quanto per via di una scelta di vita radicale.

Voleva cambiare le cose da vicino, di persona. Voleva combattere la criminalità, la mafia, la povertà, e soprattutto la mancanza di educazione e di strumenti con cui permettere che le nuove generazioni si riscattassero, prendessero coscienza di sé, avessero un ruolo concreto nella società. E così è arrivato ed è rimasto, organizzando scioperi e iniziative rivoluzionarie, dando voce a chi non ne aveva, impegnandosi affinché la fame e le conseguenze del terremoto fossero sempre meno deleterie per la popolazione locale.

La sua è una storia che lascia il segno, che mette i brividi per l’ideale di comunità che porta con sé (e che condivide con il resto del mondo): una storia in cui la dimensione personale è e rimane quella della res publica, fatta di attriti e di compromessi, sì, ma specialmente di sogni da garantire, di diritti da rivendicare, di orizzonti da ampliare.

Io, che in Sicilia ci sono nata e ci ho abitato a lungo, di Danilo Dolci ho sentito parlare poco e male. Eppure, la sua portata viene paragonata nel testo a quella di Maria Montessori, don Milani, Gianni Rodari. Certo, alcune delle sue idee sono di fatto cadute nel vuoto nel macrocosmo dell’istruzione italiana e sicula, sfortunatamente, ma resta vero che l’impatto della sua presenza continua a farsi sentire nei centri nati grazie a lui, nei progetti che curano e nella loro collaborazione con diversi enti per garantire una formazione dignitosa ed equa a chi nasce al di qua dello Stretto di Messina.

Così, facendomi strada fra la ricostruzione della sua biografia e le immagini, le citazioni e le testimonianze in presa diretta che sono state raccolte nell’opera, ho avuto modo di conoscere più da vicino sia lui sia chi, dopo di lui, non ha mai mollato la presa e ha dedicato la propria esistenza a rendere quest’isola un posto migliore.

«Mi era sempre più chiaro: finché non si ha esperienza che profondi e sostanziali cambiamenti sono possibili e si ripete facilmente ‘è sempre stato così e sarà sempre così’» scrisse una volta Danilo Dolci, «è molto difficile che l’uomo si impegni per operare cambiamenti». Una frase che racchiude il senso del suo impegno e che, proprio come riesce a fare la pubblicazione delle Edizioni Clichy, ci aiuta a fare tesoro della sua eredità affinché nuovi e più profondi cambiamenti si possano realizzare anche sotto i nostri occhi.

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