Conosci nuove persone, visiti posti incredibili e magari ti innamori pure, mentre impari un’altra lingua e sostieni esami finanziato da una buona borsa di studio. Amici e parenti sono convinti che tu sia felice di essere partito, poi torni e tutti ti credono felice di essere di nuovo a casa. Ma è davvero sempre così?

[dropcap]N[/dropcap]ell’immaginario comune, un’esperienza di studio o ricerca tesi all’estero nell’ambito del Progetto Erasmus (o di altri scambi affini) è una parentesi rosa fra le parole “studio” e “routine”. Uno di quei periodi d’oro della prima età adulta in cui il mondo è ancora tutto da scoprire, parlare di futuro significa decidere in quali piacevoli attività trascorrere le settimane successive. Quantomeno, così si direbbe. Ma cosa significa realmente e al di là di questi luoghi comuni partire e poi ritornare per le nuove generazioni, soprattutto nel caso dei siciliani?

ADDIO COMFORT ZONE. Fin da quando si muovono i primi passi per iscriversi temporaneamente ad un’università estera, partecipare a un programma di mobilità significa innanzitutto confrontarsi con documenti, scadenze, uffici, e-mail multilingui e altri trastulli burocratici. Varrà la pena, garantiscono i più veterani, e allora ci si rimbocca le maniche e si resiste, almeno finché non si inizia a fare i conti anche con le differenze culturali del Paese che ci ospiterà. Microscopiche o insormontabili che siano, richiedono infatti la nostra adesione prima ancora di comprare i biglietti aerei e una flessibilità mentale che il più delle volte accettiamo di buon grado, ma che non necessariamente è una piacevole compagna di viaggio, specie se, da bravi isolani, si ha una qualche resistenza a uscire dalla propria comfort zone, sia essa climatica, culinaria, oraria, etc.

UNA NUOVA FORMA MENTIS. Il primo step, comunque, non è detto che sia traumatico per chiunque, anzi. C’è chi rinuncia a partire senza avere nemmeno saputo in che città sarebbe stato destinato e c’è chi non aspetta altro da una vita intera. Quale che sia il caso, certamente il primo giorno di lezione è impegnativo a prescindere. Oltre ad abituarsi a una nuova realtà culturale, umana e cittadina, infatti, c’è anche da entrare in una diversa forma mentis accademica, peraltro destreggiandosi in una lingua diversa dalla propria. Non era proprio quello per cui si era deciso di aderire al bando? Certo, ma la frustrazione di quando un docente spiega l’argomento su cui si è più ferrati al mondo e non si riesce a cogliere il cuore del suo discorso, o di quando viene chiesto di riscrivere da capo un compito per casa a cui si lavora da sei giorni perché linguisticamente barcolla, non la smorza neanche una lauta borsa di studio.

L’APOSTROFO ROSA. Ad ogni modo, è chiaro che fare un Erasmus significhi anche sperimentare la portata di un interessante apostrofo rosa («come, non sei contento di essere lì?», ci ripete chiunque telefoni da casa). A prescindere dalle temporanee difficoltà di adattamento o di esistenza quotidiana, è vero che mai full immersion nell’interculturalità fu così intensa, variegata e stimolante – mai esperienze tanto inedite, mai conoscenze altrettanto miste in posti ancora da scoprire, mai curiosità di ogni sorta con cui arricchire i momenti di svago. Mai una tale concentrazione di vita e di vite, insomma, e sfide da raccogliere sia sul piano umano che su quello social: il soggiorno oltre confine diventa una straordinaria «palestra di cittadinanza europea praticata», per citare la politica e giornalista Silvia Costa.

TUTTI GLI ALTRI APOSTROFI. Spesso, però, se ne prende coscienza fino in fondo solo nel momento in cui si torna, cioè quando le valigie da disfare e i moduli da compilare portano tutti a casa propria. Arricchiti, cresciuti, cambiati. Con parecchie foto e numeri di telefono in più sullo smartphone, e in un caso su quattro con un nuovo amore, secondo un’indagine condotta da Erasmus Impact Study. Così entusiasti che si sta stretti nel proprio letto e nelle strade che prima si frequentavano volentieri ogni giorno e che all’estero ci mancavano. Coinvolti tanto da sembrare i nuovi attori della pubblicità Costa Crociere, intenti a riempire di lacrime la vasca da bagno dopo una vacanza. Incompresi al punto da non riuscire a rimettere radici dove le si aveva sempre piantate, né a estirparle del tutto da una terra che non ci ospita più («come, non sei contento di essere tornato?», ci ripetono ora come un mantra). Ora nostalgici e ora appagati, tra il senso di colpa e il senso di fuga, appesi a un filo d’acciaio sottile, ma impossibile da spezzare.

IL TRAVEL BUG. D’altronde, come sostiene Kellie Donnelly su Thought Catalog, dopo che si parte la prima volta si smania per farlo di nuovo. «Lo chiamano travel bug, ma in realtà è il tentativo di tornare in un posto in cui la gente intorno a te parla la tua stessa lingua. Non l’inglese, lo spagnolo, il cinese o il portoghese, ma quella lingua in cui gli altri sanno cosa significhi partire, cambiare, crescere, fare esperienza, imparare, poi tornare a casa e sentirsi più soli nella propria città che nel posto più lontano da casa che si sia mai visitato». È questa la ragione per cui si vorrebbe tornare in giro per il mondo: non perché il “nostro” posto non ci soddisfi più, non perché i nostri amici non siano poi così cari, o perché la persona di cui ci siamo innamorati abiti dall’altra parte del mondo e stia finendo gli studi lì prima di ricongiungersi a noi in un futuro ancora poco prossimo, ma perché adesso si è capito che la vita comincia dove finisce la comfort zone, cioè al prossimo controllo passaporti, ed è lì che si vuole andare a riprendersela. Appena fuori dalla propria “isola”.

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