Con la fine di agosto si avvicinano, quando non fossero già finite, le ultime giornate di ferie. Quelle che, una volta giunte al termine, lasceranno dietro di sé tanti ricordi e… in certi casi, altrettanta pigrizia mentale. Tornare a lavorare o a studiare dopo un periodo di riposo, infatti, porta molta gente ad accusare i sintomi della lagnusìa sicula, ovvero di una prolungata indolenza lamentosa.

E proprio per persone come loro, nella Trinacria, sembra essere stato coniato anticamente anche il proverbio ‘U jòrnu nun ni vògghiu e ‘a sira spàddu l’ògghiu, che letteralmente potremmo rendere in italiano con la frase Di giorno non ne voglio e di sera spreco l’olio. Il riferimento è più complesso di quanto potrebbe apparire a una prima lettura e non si riferisce all’olio inteso come culinario, motivo per cui è necessario tornare a una società pre-elettrica per capirlo fino in fondo.

«Non volerne», in questo contesto, è infatti in primo luogo un sinonimo dialettale di «non avere voglia di fare qualcosa», cioè dimostrare per l’appunto un atteggiamento fiacco e inoperoso, tipico di chi, piuttosto che darsi da fare per portare a casa qualche risparmio, preferisce invece dormicchiare.

Nel momento in cui tramonta il sole, però, lo stesso individuo si riattiva e resta sveglio fino a tardi per ovvia mancanza di stanchezza, accendendo la sua lampada a olio e facendone un consumo smisurato e al di là dei propri risparmi, come se potesse permettersene una quantità che invece non è in grado di autofinanziarsi a causa del suo stile di vita.

L’espressione, quindi, evidenzia un comportamento doppiamente criticabile, perché caratteristico non solo di chi non si dà da fare, ma anche di chi dilapida senza parsimonia le risorse in suo possesso. Così, oggi continua a essere usata da una parte all’altra dell’isola per indicare una persona inconcludente, che oltre a essere lagnùsa ha pure l’abitudine di fari scialìbbia

(Si ringrazia Cristina Guglielmino per lo spunto)

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