Ci sono storie che solo la fotografia, cioè la permanenza eterna di un istante, è capace di salvare. Alla fine degli anni Quaranta un giovane di 15 anni, Gianfranco Ayala, si diletta nel ritrarre la sua città, Caltanissetta. Il suo obbiettivo cattura volti di ogni età e condizione. Gli stanno a cuore sguardi veri e rivelatori di sentimenti, di gioia e miseria mitigata da un’incrollabile dignità.

È amico di un insegnante di Racalmuto, non ancora trentenne, che si chiama Leonardo Sciascia. Lo scrittore comincia ad appassionarsi alle immagini del giovane amico. Gianfranco scatta tante foto nella piccola miniera di zolfo di proprietà della famiglia, fa amicizia con i minatori, osserva le procedure arcaiche con cui si lavora lo zolfo. Aiutato dal padre, gira uno straordinario documentario, Solfara. Un esempio mirabile di realismo e di empatia con i lavoratori, di cui il giovane Ayala riuscì a guadagnarsi la fiducia a tal punto da seguirli con la cinepresa, fino a farsi dare da loro del tu. Una testimonianza unica sulle reali condizioni di lavoro, sfruttamento, fatica di persone che non avevano alcun diritto.

La famiglia Ayala non asseconda il desiderio del figlio di frequentare il Centro sperimentale di Cinematografia a Roma, preferendo iscriverlo all’Università di Torino per studiare Medicina. Gianfranco diventerà un neurologo e passerà 40 anni negli Stati Uniti. A causa del distacco la sua attività fotografica e cinematografica subisce una brusca interruzione. Solo 70 anni dopo, alla veneranda età di 86 anni, decide di rendere pubblici gli scatti realizzati in gioventù nella sua Caltanissetta tra il 1948 e il 1952. Fotografie talmente belle e piene di significati che anche l’Istituto LUCE ne ha allestito una mostra nel 2020. Nel cui catalogo si legge: «È un talento naturale, senza formazione specifica, allievo solo di uno stampatore di foto e di ciò che vede, Ayala, incrocia senza saperlo le traiettorie del realismo cinematografico italiano, di Cartier-Bresson, degli street photographers americani, un genere fotografico che vuole riprendere i soggetti in situazioni reali e spontanee. Sono foto di pura bellezza, sulla città e la campagna, gli adulti e i bambini, sulla fatica, la povertà, il sorriso della vita. La sua storia può essere quella di un racconto di Gesualdo Bufalino, di una vocazione post-datata».

La foto scelta è quella di una ragazza che sorride, lieta. La sfocatura dello sfondo, per l’uso di un teleobiettivo, oggi chiamato pure “effetto bokeh”, parola giapponese che significa “fuori fuoco”, evitando distrazioni a chi guarda l’immagine, valorizza più potentemente il volto sereno della giovane. Eccezionale il taglio di luce scelto in un pomeriggio estivo e ventoso. Lo scatto, con il soggetto alla sinistra dell’inquadratura, è molto dinamico, non statico, grazie alla regola dei terzi, retta dal principio che una composizione decentrata è più piacevole alla vista e offre un aspetto più naturale di una foto in cui il soggetto è posizionato al centro.

È lui stesso che racconta in una intervista la scelta di farci dono dei suoi scatti che in realtà non ha mai abbandonato. «I negativi, come il filmato in 16mm girato nella miniera, sono sempre stati con me negli Stati Uniti. Me li sono sempre portati dietro, senza chiedermi il perché. Non ne feci niente, né li guardai mai, perché molto coinvolto dalla mia attività professionale. Tornato a vivere in Sicilia alcuni anni fa, li ho ripresi in mano, li ho scansionati e stampati e mi sono di nuovo identificato nel Gianfranco di allora».

Commovente il ricordo di quegli anni. «Non si può dire che io mi sia scoperto fotografo. Ero un ragazzino al quale una zia aveva regalato, per il suo quindicesimo compleanno, una macchina fotografica. Era, se non la prima, una delle prime macchine italiane di questo formato, una Ferrania Condor I, formato 24×36, con ottica fissa. Dopo pochi mesi ho avuto un colpo di fortuna, un proprietario di un negozio mi offrì una Leica F3 in buone condizioni a prezzo eccezionale, ottica intercambiabile, stupenda, che cambiò la qualità delle mie fotografie».

E ancora: «Appartenevo a una famiglia benestante di Caltanissetta, mio nonno gestiva la miniera di famiglia. A casa, durante il rito del pranzo in cui tutti i membri della nostra grande famiglia sedevano alla stessa tavola, il discorso finiva sempre sulla miniera. Finito il pranzo, mio padre ed io uscivamo soprattutto per svagare un poco. Quando mi venne donata la macchina fotografica, la portai con me. La prima cosa che incontravo erano le strade, i bambini. Le foto più sentite furono tutte scattate in un raggio di cinquanta metri dal portone di casa. La strada era la mia liberazione. Tutti volevano essere fotografati e si aspettavano che verso le 15 di ogni giorno sarebbe spuntato quel ragazzo ben vestito e pulito con la macchina fotografica al collo. I bambini si inventavano vere e proprie scenette, pur di attirare la mia attenzione. Gli anziani, anche loro, erano affascinati dalla macchina fotografica, mi guardavano direttamente in viso e si mettevano in posa, ma mai in maniera spavalda come i bambini, quasi vergognandosi della propria vanità».

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