a cui ho la certezza matematica che non mi avvicinerei mai se dovessi basarmi solo sul titolo, sull’argomento, sullo stile, sulla forma e sulle tematiche. Libri che mi attraggono a sé soprattutto perché li ha scritti un autore specifico, nel quale ripongo una fiducia cieca e incrollabile.

È così che mi sono ritrovata a leggere un saggio chiamato L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin perché lo firmava Alessandro Baricco, una saga familiare sudamericana intitolata L’isola sotto il mare perché era l’ennesima perla narrativa di Isabel Allende, una raccolta di lettere dal gulag perché contenevano l’epistolario dello scrittore Aleksej Losev. Ed è così che questo mese ho letto un graphic novel incentrato sostanzialmente sulla burocrazia e sui regimi totalitari, perché è l’ultimo a cui si è dedicato il fumettista italo-argentino Daniel Cuello.

Il suo tratto bizzarro, dalle forme allungate e dai colori saturi, spesso sulle tinte dell’arancia bruciata, l’ho scoperto due anni fa durante un master in editoria che ho seguito a Milano. O meglio, durante le settimane di isolamento forzato a cui è andata incontro la nostra classe: ero chiusa in una stanza a iscrivermi alla prova gratuita di vari servizi di streaming, musicali e di lettura digitale quando mi sono imbattuta in un graphic novel dal nome invitante: Residenza Arcadia.

Mi è bastato sfogliare le prime pagine per capire che affrontava una questione ben diversa dalle mie aspettative, ovvero la vita quotidiana di un condominio popolato da anziani. Niente che avrei approfondito volentieri, se non mi avesse colpito il sarcasmo del suo autore, la gamma di espressioni facciali che era capace di proporre, l’oscillazione tra delicatezza e ironia su cui si basava quella storia assurda e commovente.

Ora Daniel Cuello è tornato in libreria con Le buone maniere, un volume cartonato a colori di 224 pagine che ha pubblicato BAO Publishing, e che ho deciso di procurarmi prima ancora di capire di cosa parlasse. Ho cominciato il primo capitolo venendo catapultata in mezzo ai dialoghi degli impiegati di un ufficio pubblico, che lavorano per il partito attualmente al potere in uno Stato totalitario non meglio definito.

Siamo in un futuro prossimo, o forse in un passato recente. O forse invece in un presente che non riconosciamo come nostro. E siamo, ancora una volta, fra personaggi impressionanti, assolutamente fuori dagli schemi, fin troppo inquadrati in un pedante ambiente amministrativo per avere un qualche fascino. La loro attrattiva risiede proprio nella loro mancanza di midollo spinale, nelle loro giornate-fotocopia, nelle loro parole grigie e senz’anima, che creano un contrasto straordinario con l’improvvisa scelta di uno di loro di rompere le righe.

A quel punto le tavole cambiano, la comunicazione prende un’altra forma, la storia se ne va per conto suo correndo su un binario impossibile da prevedere e tutto da esplorare. Si gusta a piccole dosi di meraviglia, Le buone maniere, e non appena si ride ci si lascia già andare a una smorfia di amarezza, nel realizzare quanto surreale e tragicomica sia la vita umana, ora presa singolarmente e ora considerata nei suoi condizionamenti collettivi.

Non avevo dubbi che questa esperienza di lettura mi avrebbe segnata, a modo suo. Anche se ammetto che non sarei riuscita a prevedere come, o perché, o a partire da quale snodo di trama. Sapevo solo che ero nelle mani di Daniel Cuello, e che nella sua fantasia grottesca e brillante avrei potuto credere a scatola chiusa. Perciò, se dovessi spiegare per chi è Le buone maniere, direi che è per chi cerca una voce narrante solida, significativa, pregnante. Per chi il valore di una storia lo riconosce – anche – dalla penna o dalla matita di chi l’ha creata, e per chi Daniel Cuello lo conosce già fin troppo bene per ignorarlo, o ancora troppo poco per continuare a temporeggiare.

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