Io, in genere, i libri che trattano argomenti che non mi interessano li frequento solo per lavoro. Se operi nel mondo dell’editoria e ti chiedono correzioni, valutazioni o editing, non puoi mica andare a dire ai tuoi committenti «No, scusa, ma il tema di quest’opera non fa per me». E quindi li accetto, li maneggio, imparo perfino ad affezionarmi a molti di loro, man mano che imparo a conoscerli.

Nel tempo libero, però, di solito mi circondo di testi della mia comfort zone, in cui so di trovare degli elementi che mi sono cari e familiari. Così, giusto per alternare le due cose, e per andare di tanto in tanto sul sicuro. Nonostante questo, mentirei se vi dicessi che non faccio mai eccezioni. Certo, sono rare, eppure mi capitano.

Ne ricordo una in particolare risalente almeno a dieci anni fa, che mi aveva spinto a comprare titoli come Emmaus e Questa storia non perché fossi appassionata di romanzi di formazione con riferimenti religiosi, o perché mi piacesse approfondire la vita di Ultimo Parri, ma perché entrambi i libri erano stati scritti da un autore che ammiravo e seguivo molto da vicino, ovvero Alessandro Baricco.

Mi è successo anche con Stefano Benni, con Marguerite Duras, con Luigi Pirandello. E, negli ultimi anni, con Giorgia Tribuiani, di cui infatti avevo già commentato per esempio il suo Padri, uscito per Fazi lo scorso febbraio. Ora in libreria è arrivato un suo racconto di 74 pagine pubblicato da Tetra- insieme ad altre tre storie brevi firmate Valeria Viganò, Antonio Moresco e Alfredo Palomba.

La copertina del volume

Si chiama Superstar e parla di una faida tra wrestler, di bullismo, di riscatto. Se non mi avessero detto che l’autrice era lei, probabilmente non me lo sarei mai procurato, e avrei fatto male. Avrei pensato che le conseguenze di una rivalità sul ring non facessero per me, quando invece il match che sta al centro dell’opera mi ha permesso di riflettere sulla vendetta, sulla violenza, sulle ombre di tanti sentimenti umani.

Non a caso, quando scegli di procurarti un volume non perché dentro ci sia la storia di cui avevi bisogno, ma perché a crearla è stata una penna di cui ti fidi per davvero, secondo me devi farci caso. Perché si tratta di un’eccezione che scavalca la divisione fra libri interessanti o meno interessanti, e che ti permette di imparare qualcosa su come si scrive, sui motivi per cui si legge, sulla miriade di modi imprevedibili per i quali ci si può ritrovare incollati alle pagine fino alla fine.

Io, d’altronde, non sapevo cosa aspettarmi da Superstar. Lo sbirciavo con un po’ di resistenza, di esitazioni. Però sapevo cosa aspettarmi da Giorgia Tribuiani, e così sono salita anch’io sul ring, mi sono buttata anch’io fra Hawk e Joe, i protagonisti del racconto, e ho lasciato che mi conquistassero con la loro umanità sgangherata, con i loro valori, con i loro irresistibili difetti.

Ho l’impressione che un esercizio del genere dovremmo concederlo più spesso. Se volete potete pure considerarlo un esperimento, più che un esercizio: salire a bordo di una storia non per cosa pensate che possa dirvi, o che possa darvi, ma perché alle sue spalle sapete che c’è una persona con una bella testa, una figura del cui talento non dubitate.

Può trattarsi di Superstar, così come di un altro testo. Comunque sia, se la vostra fiducia è ben riposta, è verosimile che anche voi – a lettura conclusa – prendiate il libro in questione e lo mettiate in un posto d’onore della vostra libreria. In uno scaffale non troppo alto e non troppo nascosto, perché sentite che ben presto vi verrà voglia di sfogliarlo di nuovo, e poi ancora, finché non sarete pronti ad ammettere che (chi l’avrebbe detto?) vi ci siete propri affezionati.

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