Mettiamo il caso che il cielo ti abbia donato uno straordinario genio creativo. Ipotizziamo che, dopo una giovinezza dai contorni cupi, segnata inesorabilmente, dall’immane tragedia della guerra e dalla tua militanza nell’esercito nazista, la tua scrittura e il tuo impegno a favore della pace abbiano decretato la tua completa redenzione. Poniamo persino l’ipotesi che la tua carriera da scrittore giramondo ti sia valsa il conferimento del premio Nobel per la letteratura. Potresti mai, guardandoti alle spalle, provare rimpianto per un istante sfuggito? Per un volto incrociato e poi tristemente abbandonato? Per un luogo che non credevi saresti riuscito a chiamare casa? Evidentemente, tutto ciò è possibile. Specie se il luogo in questione è la Sicilia. La triste, eccelsa, rocambolesca vita di Günter Grass, tra i maggiori intellettuali tedeschi del secondo Novecento, ne è una tangibile testimonianza. Perché, proprio tra le verdeggianti distese siciliane, tra il vociare confuso e armonioso delle nostre strade, egli aveva trovato il proprio confortevole rifugio. L’approdo agognato di una fuga dal passato che, invece, durò sostanzialmente in eterno. Una tappa voluta ad ogni costo, eppure fugace, repentina. Un volo dell’anima compiuto con leggerezza, quasi a contrappelo, come fanno certi insetti sulla superficie dell’acqua. Eppure capace di imprimere una traccia così profonda da riaffiorare, di tanto in tanto, a distanza di chilometri, di anni, di parole masticate.

Sognava di perdersi tra i monumenti siciliani.
Ma il suo arrivo nell’isola era stato
decisamente poco agevole:
era giovane, spiantato, addolorato

In Sicilia Grass arrivò nel 1951. Veniva dalla prigionia in un campo di reclusione in Baviera, dove gli Stati Uniti lo avevano relegato per la sua ingenua ed esecrabile militanza tra le fila delle armate tedesche. Veniva, per di più, da un amore fallito. Da mesi di lacrime, sensi di colpa e tabacco compulsivo. Voleva ricominciare: e per farlo aveva scelto la Sicilia, l’isola di cui aveva meravigliosamente sentito parlare, la terra che, nel suo immaginario, era strettamente legata alla sua identità mitteleuropea, al ricordo della dinastia degli Staufen, di Federico II. Sognava, da appassionato d’arte che aveva iniziato a frequentare l’Accademia di Düsseldorf, di perdersi lungo i leggendari percorsi monumentali italiani, soprattutto in quelli siciliani dal carattere classicheggiante. Ma il suo arrivo nell’isola era stato tutt’altro che agevole: era giovane, spiantato, addolorato. Andò incontro ad una vera odissea, fatta di mezzi fortuna, percorsi accidentati e improbabili richieste di passaggio: «Automobili e camion diversi, da Innsbruck addirittura una moto – scrisse poi successivamente in quella sorta di memoriale che prese il titolo di Sbucciando la cipolla – trasportarono me e il mio dolore che di tappa in tappa diminuiva sensibilmente oltre il passo del Brennero, nel paese dei limoni in fiore. Sono arrivato lontano. Con furgoni a tre ruote, su carri tirati da asini, in Topolino, la popolare biposto di quegli anni. Sue giù per lo Stivale. Ancora più avanti, attraverso la Sicilia, tra Siracusa e Palermo». E proprio a Palermo Grass, che inizialmente aveva giustificato il suo aspetto trasandato ed esotico, spacciandosi per un pellegrino alla ricerca del santuario di Santa Rosalia, aveva deciso di fermarsi. Cominciò a frequentare l’Accademia di Belle Arti come aspirante scultore. Ma, soprattutto, trovò nuovo nutrimento per il cuore nello sguardo fiero e dolce di Aurora Varvaro. Un amore delicato li rapì: quasi senza parole, le loro rispettive lingue lontane ed incompatibili, ma uniti dal reciproco bisogno di essere compresi. Uniti, per di più, dalla sublime sapienza dell’arte: per qualche tempo, infatti, la Varvaro posò come modella per gli studi di scultura dell’autore tedesco. Poi, malinconicamente, la vita fece il suo corso. Grass continuò le sue peregrinazioni in giro per l’Europa e i due si separarono per sempre.

La Sicilia era stata sinonimo di amore,
ma anche di ispirazione e ardore creativo. Un’esperienza meravigliosa, ma incompiuta

Di lì a qualche anno, nel 1959, lo scrittore avrebbe dato alle stampe Il tamburo di latta, l’opera che lo consacrò a livello mondiale. Avrebbe trovato un nuovo amore, che avrebbe condotto fino all’altare. Eppure mai, nemmeno per un istante, quella stagione felice avrebbe smesso di proiettare il suo ricordo: «Io me ne andai, lei rimase. Ma ancor oggi, dopo un distacco durato più di cinquant’ anni che venne interrotto solo una volta, all’inizio dei Sessanta, e portò a qualcosa che vuole essere omesso, ci scambiamo segni di vitae non abbiamo dimenticato niente, né l’intimità nel buio delle chiese, né le parole sussurrate, né i momenti di fuggevole vicinanza». Non fu l’unico “se” che Grass si portò dentro a lungo. La Sicilia non era stata soltanto sinonimo di amore, ma anche di ispirazione, di nobiltà del sentimento, di ardore creativo. Un’esperienza meravigliosa, ma forse incompiuta. Privata di quei frutti che è un peccato non aver letto: «Cosa sarebbe diventato possibile se fossi rimasto a Palermo si può immaginare solo in un film del tutto diverso che si svolge in toni di tragicommedia sotto il cielo di Sicilia, portato avanti nel pensiero fino alla decrepita vecchiezza. E quanto era rimasto dei greci, saraceni, normanni e Staufen in quell’ insulare luogo di rovine si sarebbe certo addensato in materia narrativa per un romanzo epicamente ramificato».

Perché la Sicilia è così. Ti pietrifica, come Medusa, e ti impedisce di ignorarla. Ti entra nelle ossa, prende la forma di un sogno, di un accento nostalgico, di un giorno qualunque che si trasforma. Succede a tutti. Anche se ti chiami Günter Grass. Anche se il tuo destino è starle lontano.

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