Avere dei maestri all’altezza, riprendersi il diritto ad avere una voce influente, riscattare un’identità diversa da quella che viene imposta: queste sono alcune delle ricette che, sulla scorta del monito lanciato dalle profonde analisi dello storico catanese, le nuove generazioni possono impugnare per rimediare alle difficoltà di un mondo che non hanno costruito e disegnare la via di un futuro diverso

Leggendo l’articolo di Giuseppe Giarrizzo sulla disoccupazione giovanile sono stata rapita dall’energia sprigionata da alcune espressioni scelte come “cancro sociale del Mezzogiorno”, “irresponsabile distorsione”, “genocidio socio-culturale”. Da quell’editoriale, pubblicato su La Sicilia nel 2004, sono passati 15 anni. Invano direi, se ancora oggi leggendolo devo prendere coscienza del fatto che parla di me e dei miei coetanei, di tutti coloro che prima o poi saranno costretti a lasciare la Sicilia o l’Italia. I numeri non sembrano spaventare la politica, anche quando la perdita si conteggia in termini economici. Sono d’accordo con chi sostiene che oggi non si emigri più come 50 anni fa: siamo la generazione Erasmus, ci muoviamo in uno spazio europeo comune e ci trasferiamo laddove i nostri profili professionali risultano più ricercati. Però l’emigrazione è tale quando rimane una scelta, quando coinvolge un numero contenuto di laureati altamente specializzati, quando la perdita in termini economici non risulta così catastrofica. Ecco perché è corretto parlare di genocidio socio-culturale. La nostra generazione ed alcune prima della nostra sono state costrette a raccogliere le briciole di un banchetto di eccessi, ad abbassarsi e a divenire sempre più minuscoli, sempre più invisibili.

GIOVANI INVISIBILI. Proprio qualche tempo fa Ferruccio de Bortoli ha scritto un articolo sul Corriere della Sera dal titolo “I giovani invisibili”, parlando di noi come migranti silenziosi, cittadini di seconda classe. Nell’articolo si fa rifermento alle due principali misure economiche messe in atto dal nostro Governo, quota 100 e reddito di cittadinanza, per ragionare sull’assenza di misure volte esplicitamente ai giovani. È naturale infatti che ogni agenda politica abbia delle priorità correlate ad un preciso momento storico: ne consegue che noi non siamo la priorità di quest’epoca. Di fronte a questa presa di coscienza abbiamo però il dovere di chiederci come rialzare la testa e riacquisire una voce. E a questo punto si giunge a due snodi irrinunciabili per la nostra generazione: uno è l’impegno politico, quella sfera della vita comune che abbiamo trattato con superficialità pensando che non ci riguardasse e che è invece imprescindibile per avere una voce in questo Paese che non è per giovani. L’altro è il desiderio, quella spinta irrinunciabile nell’esistenza di ogni individuo che va però guidata da coloro che hanno il ruolo di educatori.

L’IMPORTANZA DEI MAESTRI. In un’intervista rilasciata al giornalista de La Sicilia Mario Barresi, Giarrizzo affermava: «L’università deve agganciare i sogni dei giovani alle loro aspettative reali. Se non riesce a fare questo è meglio che chiuda…». I nostri sogni come vagoni volanti dovrebbero quindi essere riportati sulla giusta traiettoria, riagganciati ai binari che ci condurranno verso il futuro. E la metafora del treno torna più avanti quando Giarrizzo afferma: «Io, da nonno, dico alle mie nipoti: se passa il treno dovete saltare dentro, ma se non avete le competenze non si ferma alla vostra stazione». È un passaggio fondamentale perché precisa la duplice responsabilità in una società: quella delle istituzioni educative, che a vari livelli devono promuovere una formazione adeguata alle richieste del mercato, senza mai abbandonare lo sviluppo di coscienze critiche e solo così agganciando i sogni dei più giovani alle aspettative reali, e quella responsabilità di cui i giovani devono tornare a farsi carico. “Politique d’abord!” deve essere oggi un monito per le generazioni oppresse dal peso delle lotte sessantottine che ci hanno affascinato ma anche schiacciato, incapaci di agire come quella mitica generazione, di combattere per i nostri diritti, di credere in un futuro migliore. La prima forma di resistenza è allora quella di non piegarsi a dinamiche che non ci appartengono e di cui non siamo responsabili, riscattare la nostra identità e i nostri valori, individuare delle guide nel mare magnum della post-ideologia.

LA NUOVA RESISTENZA. È questo il tipo di resistenza che da due anni il giornale on line Sicilian Post sta tentando di portare avanti. E non è un caso che la nostra prima inchiesta abbia riguardato la “Generazione 18”. Quando abbiamo chiesto ai giovani tra i 17 e i 20 anni dove immaginassero la vita futura il 39% ha risposto in un Paese europeo, e tra questi un giovane ha spiegato la sua scelta affermando di non voler costruire la propria vita in un Paese “che non è più nostro”, un Paese che non è per giovani. Che sfida assurda allora quella di creare un giornale under 35 che parla di giovani in un Paese in cui questa categoria è invisibile. Con quest’assurdità facciamo i conti tutti i giorni, quando non siamo presi sul serio perché non abbiamo ancora raggiunto i 50 anni, quando rimaniamo invisibili alle istituzioni, quando ci scontriamo con l’enorme difficoltà di fare rete con altre realtà siciliane. E a quest’assurdità rispondiamo con la resistenza di chi non intende rassegnarsi. Tempo fa il nostro direttore Giorgio Romeo scrisse un interessante articolo dal titolo “Siamo la generazione delle promesse negate: cosa significa “resistere” per un giovane oggi?”. L’articolo ha ricevuto delle risposte tra le quali la lettera di un siciliano laureatosi da poco a Milano, Giorgio Impellizzieri; una lettera – come scrive lui – alla ricerca di destinatari. È una voce che si solleva per denunciare che il sud sta morendo, silenziosamente, senza dare disturbo al pari di quei giovani migranti silenziosi di cui parla De Bortoli. Resistere oggi significa allora riacquisire una voce e un’identità, per non essere più invisibili.

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