«So che i ragazzi vogliono cose che conoscono, di cui partecipano, e tutti i libri che corrono per le scuole sono sbagliati». A scrivere questo acuto pensiero, nell’ormai lontano 1955, è Leonardo Sciascia, che in Cronache Scolastiche, scritto confluito l’anno dopo ne Le Parrocchie di Regalpetra – toponimo dietro il quale si cela il suo paese di nascita Racalmuto – ci regala una profonda riflessione sul mondo della scuola scaturita dalla sua personale esperienza come maestro. Un maestro costretto a confrontarsi, giorno dopo giorno, con perenni e scottanti quesiti:esiste una qualche forma di gratificazione in questo mestiere? Se sì, in cosa consiste? Di fronte a ragazzi dallo sguardo spento, scoraggiato, fiaccati dalle pressanti necessità della vita quotidiana, che aspettano la refezione perché è forse la loro unica opportunità giornaliera di godere di un pasto, in che posizione si colloca l’insegnante?

Gli interrogativi sciasciani, lungi dall’essere limitati nella loro validità all’epoca in cui sono stati formulati, si presentano con rinnovato vigore agli occhi della scuola odierna, troppo spesso focalizzata sull’adempimento di scalette o di blocchi didattici precostituiti e poco incline alla necessaria flessibilità. In un periodo delicato come quello che stiamo vivendo, per di più, dove abbondano gli spiacevoli fatti di cronaca che hanno come fulcro il sempre più delicato rapporto tra insegnanti e famiglie, le parole di Sciascia devono fungere da monito per riscoprire il ruolo decisivo del docente. Ritrovarsi in classi dove gli studenti dimostrano un sentimento di amaro disincanto nei confronti delle modalità didattiche non è frequente soltanto in realtà periferiche dove, ancora oggi, magari è l’istinto di sopravvivenza inculcato dalle famiglie a prevalere sulla sincera adesione all’idea di utilità della scolarizzazione, ma è un fenomeno ben più complesso riscontrabile, potenzialmente, in ogni classe di ogni istituto. È qui che subentra il ruolo dell’insegnante:che non si limita a recitare la sua parte istituzionale – o come direbbe Sciascia a maneggiare la bacchetta di legno per indicare questo o quel punto geografico su una cartina – ma che, negli esempi più virtuosi, scava più in profondità, negli occhi dei propri allievi, fino a scoprire, nel vissuto personale di ognuno, la chiave d’accesso per giungere all’empatia. In questo senso, nel preoccuparsi della persona nella sua interezza e non semplicemente dello studente, tramite le intuizioni che Sciascia colse più di sessant’anni fa attraverso una realtà scolastica ai limiti della miseria e del claustrofobico, viene alla luce quanto sia decisivo che un insegnante calibri i suoi interventi sulla consapevolezza che una classe sia estremamente eterogenea e che il suo lavoro possa influenzare in maniera inestimabile il destino di ogni apprendente.

Non soltanto insegnare, dunque, ma anche educare e rapportarsi con affetto, in modo da non essere «lontani come le cose insegnate, come la lingua che parlano i libri». Si fa scuola, insomma, dosando sapientemente parole e gesti, programmi e rapporti umani. Oggi come allora.

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