La Catania lilla, ma a volte ancora silenziosa, dei giovani con disturbi alimentari
Dei disturbi del comportamento alimentare (o DCA) In Italia non si parla ancora abbastanza – o comunque, quando lo si fa, si corre il rischio di affrontare l’argomento in modo inadeguato. Ancora oggi, per dirne una, è immediata e non sempre consapevole l’associazione fra l’anoressia e le “modelle grissino”, con la conseguenza che tendiamo a crederlo un “disagio” di poco conto, lontano dal nostro mondo, che raramente interessa le persone intorno a noi.
I CASI IN AUMENTO FRA I GIOVANI. La verità, invece, è che secondo la Società Italiana per lo Studio dei Disturbi del Comportamento Alimentare (SISDCA), sono 8-9 le nuove donne che si ammalano di anoressia su un campione annuale di 100.000, e 12 quelle che iniziano a soffrire di bulimia (contro circa un uomo su 100.000 in entrambi i casi). Come se non bastasse, fra i minorenni il rapporto è di 10 persone con disturbi alimentari su 100, per un totale di circa 3-4 milioni di italiani coinvolti: parliamo, insomma, del 5% della popolazione, una percentuale in crescita specialmente dopo il Covid-19, e che è composta per il 70% da adolescenti. Se proviamo poi a concentrarci sulla nostra terra, vedremo che il discorso non è molto diverso: i responsabili delle principali strutture dedicate ai DCA a Catania, interpellati telefonicamente, concordano nel dichiarare che l’età media si è abbassata, interessando per lo più la fascia dai 13 ai 17 anni e riducendo il gap fra ragazzi e ragazze. Ciò significa che, se le donne rimangono la maggioranza – anche per via di un sistema in cui a loro si indirizzano più pressioni fisiche ed estetiche –, ora pure gli uomini usano sempre di più il cibo come un mezzo per adattarsi a condizioni psicologiche e sociali complesse.
I DCA COME SINTOMO DI DISAGIO. Lo sa bene Eleonora (nome di fantasia), una studentessa di vent’anni del capoluogo etneo che studia presso l’Università di Catania e che i disturbi alimentari li ha vissuti e combattuti – e a tratti persino amati, di quell’amore malato che si può sviluppare verso le proprie dipendenze. «Un DCA è una malattia da cui a volte non si vorrebbe quasi uscire», ci racconta infatti, quando la raggiungiamo per ascoltare in presa diretta la sua esperienza. «Questo perché il rapporto con il cibo diventa un mezzo per comunicare un disagio, per provare a ricevere affetto attraverso un tentativo disperato e malsano». Nel condividere con noi le sue percezioni, la voce di tanto in tanto le trema al ricordo del tempo che ha trascorso a lottare con se stessa, anche se subito dopo si gonfia di orgoglio al pensiero di essere uscita finalmente dal tunnel.
OLTRE LA TAGLIA C’È DI PIÙ. C’è chi, fra le tante testimonianze del nostro territorio, ricorderà anche la storia di Denise Manno, di cui avevamo parlato fra le pagine del Sicilian Post. La giovane cantautrice palermitana era riuscita a sua volta a riemergere dal suo DCA grazie alla musica, descrivendo nel singolo Chissà ilbinge eatinge le sensazioni che l’avevano accompagnata durante la malattia: «Ho passato giorni interi a chiedermi chi fossi / e senza una risposta ho lottato a tutti i costi, / ma oggi sono qui, / stanca di domandare, / perché ho capito tutto: / ho un disturbo alimentare».Conoscersi più a fondo e agire, d’altronde, sono alcune delle chiavi di volta per recuperare pian piano l’equilibrio, a prescindere dalle ragioni che stanno alla base del disagio. Sì, perché non è solo chi sogna una taglia 38 a soffrirne, e anche Eleonora ci tiene a sottolinearlo: a richiederlo può esserlo il canone di un certo sport, o il desiderio di emulare gli influencer; a volte, la rinuncia al cibo diventa la chiave per farsi accettare dai genitori e dai coetanei, ma sta di fatto che rimanere malati può sembrare purtroppo la garanzia per mantenere viva l’attenzione su di sé, «anche solo da parte di chi poi si rivela essere la causa scatenante dei nostri disturbi».
L’ASSOCIAZIONE ALILILLA. È quindi un tunnel, quello dei disturbi del comportamento alimentare, che non per niente presenta un ingresso molto ampio, eppure pronto a restringersi a vista d’occhio. Ecco perché a ciascun paziente tocca poi ritrovare la strada chiedendo il supporto mirato di uno specialista, ma anche sforzandosi di non trascurare le attività che ama. Una fra quelle che Eleonora preferisce, stando a quanto ci ha confidato, si chiama Alililla, ed è un’organizzazione non-profit creata in occasione di una competizione d’aula tra le matricole della facoltà di Economia aziendale. Si chiama Ali come le ali di una farfalla che, prima di volare, vive isolata nel suo bozzolo, e lilla come il colore a cui per convenzione vengono associati i disturbi alimentari: un piccolo organismo nato con la missione di informare e sensibilizzare sul tema, e poi vincitore del contest al quale stava partecipando.
I PASSI ANCORA DA COMPIERE. Al di là di questi modelli positivi di associazionismo locale, tuttavia, va detto che la situazione nel capoluogo etneo non è sempre così rosea: «A Catania le strutture aperte a chi soffre di disturbi alimentari sono poche – osserva infatti Eleonora – e quasi tutte a pagamento. Per di più, chi prova ad alzare la voce per chiedere aiuto viene spesso curato nei reparti di psichiatria degli ospedali pubblici, circondato da altri malati e assistito da psicologi che non sempre hanno esperienza nel settore». Una realtà che, anziché far riemergere dal problema, potrebbe trascinare i pazienti sempre più giù, e che richiede quindi un ulteriore sforzo collettivo affinché si intensifichino le attività di educazione, sensibilizzazione e sostegno nei confronti dei giovani (e dei meno giovani) in lotta con i loro mostri interiori.