Bisogna percorrere una breve scalinata e immergersi nel quartiere denominato anticamente “delli balati”, dall’arabo balat (pietra levigata, lastra) per giungere davanti alla chiesa di Sant’Orsola, a Termine Imerese. Proprio qui, su un ripido pendio roccioso, si trova infatti questo edificio sacro risalente alla seconda metà del XV secolo, che rappresenta una delle innumerevoli e preziose testimonianze del tardo barocco siciliano e che è uno scrigno di meravigliose testimonianze d’arte: stucchi, dorature, affreschi, dipinti policromi, reliquiari, iscrizioni funerarie e acquasantiere. Ancora oggi non è documentata la sua data di fondazione, anche se la più antica testimonianza risale a un atto notarile del 1498 redatto dal notaio Antonio de Michele, nel quale il luogo di culto era già citato tra quelli esistenti nella cittadina e negli immediati dintorni.

L’edificio ingloba una delle torri di difesa poste nelle mura che si snodavano lungo il perimetro della città in età repubblicana e nel Medioevo, e la caratteristica principale della struttura chiesastica è quella di essere costituita da due chiese sovrapposte: quella inferiore (documentata come dicevamo fin dal XV secolo) e quella superiore, innalzata invece agli inizi del XVI secolo, e poi ampliata nel Seicento e affrescata nel Settecento. A prestare il proprio talento al luogo di culto furono artisti fra cui il palermitano Rosario Vesco, noto per aver affrescato la volta e parte dell’abside con scene pittoriche, e don Alessio Geraci, pittore e decoratore, nonché allievo di Vito D’Anna da cui imparò i segreti dell’affresco. Da ricordare poi l’artista Tommaso Pollaci, al quale si attribuisce il dipinto Madonna del Rosario e Santi datato 1782 e, infine, Mattia Preti, il più grande pittore meridionale della seconda metà del Seicento, detto “il cavalier calabrese”, e alla cui paternità viene riferita la tela del San Benedetto che esorcizza un confratello.

La chiesa di Sant’Orsola a Termini Imerese | Ph. Mario Catalano

Ma non finisce qui, perché nella definizione dell’assetto del complesso religioso un ruolo determinante è stato rappresentato soprattutto dall’istituzione dalla Compagnia dei Neri. Si trattava di un’organizzazione di nobili caritatevoli, che si occupavano di raccogliere l’elemosina per allestire messe in suffragio dei loro confrati defunti e affrontare poi i costi del funerale e della sepoltura. Dal momento che i suoi membri indossavano dei cappucci neri per non farsi riconoscere, e che la loro attività era legata alla dipartita dei più poveri, la Compagnia era detta anche Orazione della morte, e dal 1674 ebbe la possibilità di trasformare la chiesa inferiore a propria catacomba. Ed è proprio al piano inferiore che ancora oggi si possono ammirare, tra i tanti, i resti del sacerdote e medico Vincenzo Impallaria, comunemente chiamato dalla popolazione locale Santu Baddaru o Santu Baddària.

Nato il 23 luglio 1654 dell’armatore Antonino Impallaria e di Rosalia Albacino, Vincenzo Impallaria dedicò la sua vita ai poveri e ai bisognosi, ricoprendo nel tempo il ruolo di sacerdote dotto, rettore della chiesa di Sant’Orsola, commissario ordinario del Tribunale del Santo Uffizio, vicario foraneo, protonotaro apostolico e governatore della cappella del SS. Sacramento della Maggiore Chiesa di Termini Imerese. Considerato il suo impegno e il suo buon cuore, non stupisce che sia morto in fama di santità, l’8 febbraio 1699, e che sia rimasto nel cuore della città per tanto tempo. I suoi resti riposano proprio nella chiesa e una piazzetta dei dintorni venne rinominata in suo onore, mentre intanto sopravviveva la sua fama di parrinu cchi scarpi strurùti.

La tomba di Santu Baddaru | Ph. Mario Catalano

Secondo una leggenda, infatti, Santu Baddaru non abbandonò gli afflitti, continuando ad aggirarsi come fantasma fra le viuzze di Termini Imerese allo scopo di andare in loro soccorso. Una presenza più consolatoria che inquietante, che per il tanto camminare consumava di conseguenza le suole delle proprie scarpe. Ecco perché, da tradizione, l’8 febbraio di ogni anno i devoti erano soliti portare presso la sua tomba un paio di scarpe nuove, che idealmente andavano a sostituire quelle ormai consunte. Si racconta che una volta un indigente provò a sottrarne un paio per necessità, per poi vedere in sogno il santo che lo rimproverava con un sorriso, chiedendogli di riportare le scarpe al loro posto. Se avesse avuto bisogno di altri calzari, gli disse, gli sarebbe bastato domandarli al canonico della chiesa di Sant’Orsola, e fu così che l’uomo obbedì e si vide regalare un paio di scarpe nuove di zecca.

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