Il futuro dei giornali, il futuro del Paese. Questo il titolo dell’incontro che ha visto Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera, dialogare con i trenta giovani corsisti del workshop “Il giornalismo che verrà”, promosso dal Sicilian Post. Un confronto, quello tenutosi lo scorso 20 giugno – proprio il giorno prima della scissione del Movimento 5 Stelle – sulla gestione comunitaria del conflitto russo-ucraino e sul quadro politico italiano, con uno sguardo al ruolo dell’informazione nella costruzione di un sano dibattito pubblico e alle sfide – su tutte la transizione digitale – a cui i giornali sono chiamati a rispondere da qui ai prossimi anni. 

Alla luce dei recenti risultati elettorali in Francia, che rimettono in questione i valori attualmente condivisi nell’Unione Europea, paradossalmente l’Unione politica in questa guerra anziché rafforzarsi rischia di scivolare nel populismo e dunque di prestare il fianco a Putin. Il conflitto in Ucraina anziché compattare l’Europa ne sta minando le fondamenta?
«La Guerra in Ucraina si configura come un bivio. In una prima fase la risposta dell’Europa è stata unitaria, sorprendendo Putin, il quale probabilmente si aspettava una reazione simile a quella del 2014, quando di fronte all’annessione della Crimea l’Europa si limitò a una protesta formale e qualche sanzione, probabilmente per via della nostra dipendenza dal punto di vista energetico e complici le simpatie di alcuni partiti in nazioni come l’Italia, la Francia e in misura minore la Germania. Oggi, tuttavia, si combattono due guerre: una sul campo e una geopolitica, che vede la Russia contrapposta all’Occidente. Il rischio per l’Europa è che quindi quelle formazioni politiche che avevano fatto delle simpatie verso Putin il loro fondamento possano prendere il sopravvento. Se si vuole evitare di correre questo rischio ci sono due cose da fare: innanzitutto, rafforzare la propria risposta comune soprattutto per quello che riguarda il campo energetico. Non è possibile che sia stata ancora rinviata la decisione sul tetto del gas, l’arma che Putin sta usando abbondantemente per piegare le resistenze dell’Europa. In secondo luogo sarebbe auspicabile un’unità politica e militare europea molto più concreta. Ogni paese ha i suoi sistemi militari, ogni paese ha le sue politiche della Difesa. Se l’Europa vuole competere nel nuovo assetto geopolitico e determinarne uno non sfavorevole ai nostri interessi deve presentarsi come un soggetto unitario».

«Vorrei una politica che sia in grado di esprimere dei leader all’altezza dei problemi del Paese, che non basino non basino la loro autorevolezza sul numero di follower»

E il governo italiano? Come valuta la gestione della crisi derivante dall’invasione dell’Ucraina? E in generale, l’operato di Draghi?
«Credo che, rispetto alla situazione internazionale creatasi con la guerra, Mario Draghi abbia saputo mettere l’Italia nella sua collocazione giusta e non sono così sicuro che alcuni dei leader dei partiti che precedentemente sono stati al governo avrebbero fatto altrettanto. Il problema in Italia è che abbiamo sempre bisogno di un salvatore esterno. Personalmente non ho difficoltà a dichiarare la mia stima per Draghi, che ha ben gestito la crisi quando era alla guida della BCE e poi ha avuto il compito difficile di raggiungere obiettivi come portare il Paese fuori dalla pandemia e avviare il PNRR durante una situazione politica molto difficile, tuttavia vorrei una politica che sia in grado di esprimere dei leader all’altezza dei problemi del Paese, che non basino la loro autorevolezza sul numero di follower, ma che sappiano costruire consenso dal basso, coinvolgendo gli elettori con lungimiranza e competenza. Purtroppo credo che fino a quando la leadership sarà affidata a meccanismi così populisti e demagogici le cose non cambieranno».

Come siamo arrivati a questo punto?
«Il 2018 è stato l’anno di svolta in negativo di tutto questo, con l’avvento dei due partiti maggioritari che hanno proposto dei programmi votati all’immediatezza. Hanno coltivato l’idea che l’Italia potesse fare da sola, la più grande illusione possibile, perché l’Italia è un paese privo di industria pesante e materie prime, e che dunque può vivere esclusivamente di innovazione, idee, turismo, cultura ed esportazione di prodotti. Tutti ambiti che richiedono una trama di relazioni internazionali. La seconda idea completamente sbagliata è stata non promuovere le leve della crescita, dell’impresa, del lavoro, della competenza e dell’Istruzione, ma considerare che bastasse lo Stato a risolvere tutto, magari sussidiando una parte larghissima della popolazione».

«Un giornale svolge il suo compito quando è in grado di aprire uno squarcio sul mondo, offrendo un punto di vista che non necessariamente rispecchia il pensiero del lettore»

Lei parla, giustamente, di populismi e di un’assenza di leadership competente. Ritiene che ci sia anche una responsabilità dei media nella determinazione di un simile quadro politico? Qual è il compito dei giornali?
«Credo che anche noi, come sistema dell’informazione, abbiamo avuto delle grosse responsabilità avendo assecondato moltissimo un’idea di politica come competizione esasperata, rozza e istantanea. La logica ferrea del talk show si è trasferita anche nel nostro modo di dire raccontare la politica. Questo è un errore perché la cosa peggiore che un giornale possa fare, oltre a non raccontare con aderenza ai fatti la realtà, è cercare di ingabbiarla nei pregiudizi e nelle proprie idee, nella fissità delle posizioni. Ritengo che tra i compiti fondamentali di chi fa informazione ci sia quello di contribuire alla maturazione dello spirito pubblico di un paese. Che poi è quello che gli permetterà di risollevarsi. Un giornale svolge il suo compito solamente se è in grado di aprire uno squarcio sul mondo, offrendo un punto di vista originale, che non necessariamente rispecchia il pensiero del lettore. Per fare questo è necessario essere indipendenti e nel caso del Corriere della Sera, il fatto di avere un editore che per mestiere fa esclusivamente questo aiuta molto. Tutto quello che facciamo è mirato al nostro sistema informativo e ad avere una salute economica che sia basata su quello che noi sappiamo fare: sul nostro prodotto e non perché apparteniamo a gruppi che hanno interessi diversi».

Il direttore del Corriere della Sera Lucio Fontana risponde alle domande dei partecipanti al workshop

A proposito di sostenibilità dei giornali. Come si fronteggia la crisi del cartaceo, e in che modo il Corriere della Sera ha affrontato la trasformazione digitale?
«Io credo che ci siano pochi settori produttivi che hanno vissuto uno tsunami come quello che i giornali hanno dovuto affrontare. Naturalmente io ho sempre pensato – ed è un pensiero condiviso da tutti in redazione – che i lettori abbiano diritto alla medesima qualità dell’informazione in qualsiasi forma essi decidano di fruirla, che si tratti di carta, newsletter, app o sito web. Rispetto al passato, in cui si tendeva a dare vita a due prodotti diversi, uno più approfondito e con tutte le migliori firme del giornale, e l’altro pensato in maniera più superficiale, al Corriere abbiamo deciso di fare in modo che digitale e carta convergessero. Questa scelta ha portato 5 anni fa la testata a fare una scelta: chiedere ai nostri lettori digitali di pagare per leggere il sito. Abbiamo così introdotto un paywall prendendo a modello la strategia digitale del New York Times».

Che tipo di resistenze avete incontrato di fronte a questa scelta?
«Inizialmente ci siamo scontrati con l’ideologia che voleva l’informazione sul web offerta esclusivamente a titolo gratuito. A questo si sono aggiunte le difficoltà di dare un prodotto di alta qualità anche sul digitale e soprattutto di portare tutta la redazione del Corriere a lavorare in una redazione integrata. Oggi ciascuna redazione si occupa prima del digitale e poi della carta. Questo ha richiesto una forte riorganizzazione e l’inserimento in organico di figure specializzate in ambiti come la SEO e i social network, ma non solo. Negli ultimi quattro anni abbiamo assunto circa 45 giovani giornalisti con competenze digitali. I risultati sono stati incoraggianti e oggi abbiamo un numero di abbonati digitali che è più del doppio dei lettori di carta, cui riusciamo a offrire esperienze personalizzate, dando loro informazioni specifiche tarate sui loro interessi».

Quindi le opportunità per i giovani ci saranno anche nel “Giornalismo che verrà”?
«Ai ragazzi che hanno il sogno del giornalismo dico di non farsi demoralizzare mai da chi dice loro che non ci sono possibilità. Lo dicevano anche a me 35 anni fa, quando ho iniziato questo mestiere». 

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