Se avete familiarità con la provincia di Catania, vi sarà già capitato di sentire parlare di un brano musicale dai toni parodici e goliardici, che mescolando l’italiano al dialetto siciliano dice a un certo punto: «Paternò, Paternò è un posto molto bello, / ci sono nato io e c’è nato mio fratello. / In estate i pomeriggi sono lunghi / e tutti i paternesi andiamo a caccia di larunchi… / I larunchi sono rane, e si friggono in padella: / li cucina mio fratello e se li ammucca mia sorella».

Parliamo de La Palla Di Pelle Di Rana di Brigantini, che spesso viene menzionato quando si vuole parlare per l’appunto degli abitanti del paese etneo di Paternò, definiti anticamente mangialarunchi. Come si può intuire a partire dal testo della canzone, i larùnchi nella Trinacria sono proprio le rane, anche se probabilmente questo elemento da solo non basta a spiegare la curiosa origine di questo appellativo.

Innanzitutto, infatti, va considerato che nell’isola era comune attribuire dei soprannomi a partire da una certa abitudine alimentare, un po’ come succede con i manciafìcu (it. mangiafichi) di Reitano o di Sant’Agata di Militello, entrambi Comuni della provincia di Messina. A registrarlo è stato già lo stesso Giuseppe Pitrè, insieme ai mancialuppìni (it. mangialupini) di Frazzanò (Messina) o, appunto, ai mangialarùnchi, a volte associati anche alla cittadina siracusana di Lentini.

Dopodiché, dobbiamo tenere conto del fatto che non si tratta di attributi da prendere alla lettera, e che in questo caso il significato va dedotto da un ragionamento più laterale: chi vuole mangiare una rana, trattandosi di un anfibio di medie dimensioni, non potrà limitarsi a socchiudere le labbra, ma dovrà piuttosto allargare la bocca per gustarla a grandi bocconi.

Un po’ come, secondo la convinzione popolare, accade quando i paternesi (o patornesi) stanno parlando con noi e pronunciano le vocali in maniera particolarmente aperta, spalancando quindi la bocca come se stessero per assaggiare una lauta porzione di larùnchi. Ciò spiega come mai l’espressione sia stata a lungo considerata denigratoria, anche se oggi nell’uso quotidiano assume spesso una valenza più leggera, che in base al contesto si può utilizzare con simpatia e affetto.

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