Può la grandezza essere dimenticata? Passare da un’estrema esaltazione fino ad una dolorosa indifferenza? La storia, si sa, non sempre è disposta a seguire un corso lineare: il suo procedere è accidentato, discontinuo, talvolta misteriosamente contraddittorio. Ciò che un’epoca ha consacrato come indispensabile può velocemente tramutarsi in superfluo, e viceversa. La letteratura, dal canto suo, non è affatto estranea a queste vorticose dinamiche: accade così che i sogni di generazioni di lettori svaniscano nello spazio di una notte, che gli sforzi e e le intuizioni di alcuni autori vengano sommessamente accantonate per far spazio al baccano della novità. Fortuna vuole, tuttavia, che la storia sappia anche conservare preziose testimonianze, parole e documenti che somigliano a veri cimeli, a fossili che ci tocca dissotterrare per imparare il valore della memoria. A questa missione ci invitano le poesie di Lucio Piccolo, scrittore palermitano oggi confinato nella discutibile categoria dei “minori” eppure punto di riferimento, umano e professionale, per tutti i più grandi scrittori novecenteschi siciliani e non. La sua maniera poetica, unitamente al carattere estremamente riservato, lo rendono un personaggio sfuggente e inimitabile in relazione all’intero panorama artistico del suo tempo.

Nato nel 1901 da una famiglia di nobili origini – addirittura discendente dei conquistatori Normanni – Piccolo conobbe il momento di maggior fama a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, in un’Italia disperatamente alla ricerca di una solida e promettente identità che cancellasse le ferite ancora non rimarginate lasciate in dote dal secondo conflitto mondiale. Il momento della svolta? Avvenne nel 1954, quando il poeta palermitano inviò ad Eugenio Montale una silloge contenente nove suoi componimenti. Fu un fulmine a ciel sereno: Montale riconobbe immediatamente il valore di quegli scritti, tanto da volerlo introdurre nei circoli più esclusivi della letteratura e dell’editoria italiane. Una scelta che, a posteriori, il Maestro Camilleri trovò tutt’altro che sorprendente: «Credo di capire – affermò una volta a tal proposito – la sorpresa e l’interesse che le nove poesie che Lucio Piccolo stampò a sue spese suscitarono appunto in Montale. Il fatto è che quelle nove poesie si distaccavano completamente, del tutto, da quella che era la linea predominante fino a quel momento della poesia italiana». Due anni dopo, nel 1956, la prima raccolta ufficiale: Canti barocchi e altre liriche. E dire che prima ancora che il suo Paese, Piccolo era già riuscito ad incantare il mondo: perfino l’irlandese William Butler Yates, Premio Nobel per la letteratura nel 1923, aveva sentito il bisogno di mettersi in contatto con lui e ingaggiare una lunga e fraterna corrispondenza epistolare.

Proprio questo aspetto, nella personalità del nostro conterraneo, lasciava interdetti e sbalorditi gli interlocutori: il respiro europeo della sua cultura e della sua sensibilità. Nella sua biblioteca personale svettavano nomi del calibro di Proust, Rilke, Mallarmé, nei suoi versi la dolcezza e la velata malinconia di chi esorcizza la tristezza con la scrittura. Mentre tra i suoi contemporanei spopolava il filone narrativo-cinematografico del neorealismo, mentre le gesta della Resistenza partigiana continuavano prepotentemente ad occupare la scena, Piccolo scriveva confessioni e canti dai toni elegiaci, come testimonia l’incipit del componimento intitolato I giorni: «I giorni della luce fragile, i giorni / che restarono presi ad uno scrollo / fresco di rami, a un incontro d’acque, / e la corrente li portò lontano, / di là dagli orizzonti, oltre il ricordo/ – la speranza era suono d’ogni voce, / e la cercammo/ in dolci cavità di valli, in fonti – oh non li richiamare, non li muovere, / anche il soffio più timido è violenza». Cullarsi tra le candide braccia dell’illusione, sorvolare con la forza di un idealista le asfissianti e meschine pieghe della realtà. Fu quel bisogno di purezza, il tremore emozionato dinanzi agli attimi di bellezza, il melodioso timore del baratro a conquistare i lettori di Piccolo. Anche quelli più eccellenti.

Di lui l’amico Leonardo Sciascia ebbe a dire: «Ci sono uomini che in determinate epoche arrivano alla perfezione, sciogliendosi dall’ambiente in cui vivono e dalle cose del loro tempo, assumendo coscienza della fine e salvandosene nel distacco, nella superiorità, nell’autosufficienza. E in questo senso, Piccolo partecipa di una tale perfezione, nella sua vita come nella poesia». Forse fu proprio questa serena consapevolezza a decretarne l’oblio: troppo indipendente, troppo incorruttibile perché il mercato della cultura continuasse a navigare l’onda del clamore. O forse perché, talvolta, sognare ed essere diversi è un delitto troppo grave da perdonare. «Frequentai Piccolo per anni – confessò un giorno Vincenzo Consolo – andando da lui, come per un tacito accordo, tre volte la settimana. Mi diceva ogni volta, congedandomi: “Ritorni, ritorni, Consolo, facciamo conversazione”. E la conversazione era in effetti un incessante monologo del poeta che io ascoltavo volta per volta ammaliato, immobile, nella poltrona davanti a lui. Era per me come andare a scuola da un grande maestro, a lezione di letteratura, di poesia, impartita da un uomo di sterminata cultura». La forza dell’arte che vince persino il tempo.

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