Quante volte ci è capitato di sentire espressioni del tipo “la Sicilia è una terra senza domani” oppure “non è possibile immaginare un futuro se sei siciliano” e di considerarle superficiali luoghi comuni privi di fondamento? Ebbene, tutto sommato, se consideriamo il patrimonio linguistico isolano, certi giudizi non sembrano poi così affrettati. Sciascia stesso nel 1979, infatti, rivolgendosi alla giornalista Marcelle Padovani, disse: «E come volete non essere pessimista in un paese in cui il futuro non esiste?» Proprio così: il dialetto siciliano non possiede, morfologicamente, la categoria del futuro. Non a caso, per fare intendere ai nostri interlocutori l’intenzione di agire in un momento successivo a quello della discussione, noi siciliani utilizziamo sempre il presente. Ciò che in italiano standard suonerebbe come “domani andrò al mare”, in siciliano diventa “dumani vaiu a mari”; o ancora, per parlare del proprio compleanno, in italiano diremmo “fra qualche giorno compirò gli anni”, che in siciliano si trasforma in “fra quarchi ghionnu fazzu l’anni”. L’insicurezza del siciliano, dunque, non sussiste solo a livello letterario, metaforico, ma a partire da un piano ben più pratico, quello linguistico: qual è l’origine di una tale forma mentis, che incide ancora sul dialetto contemporaneo?

La nostra storia, a giudizio di Sciascia. Sarebbe troppo semplicistico etichettare il siciliano come un pessimista per natura: piuttosto, verrebbe da dire, l’abitante dell’isola porta con sé, quasi sottopelle, una scottatura storica che lo porta ad avere timore dell’avvenire in virtù dei suoi trascorsi. La paura delle continue dominazioni, della povertà, dell’immutabilità del destino ci è stata trasmessa, geneticamente, dai nostri antenati e ha trovato riscontro nella recente crisi economica che stiamo ancora vivendo. Il siciliano, insomma, per costituzione, non può pensare in prospettiva, semplicemente perché è incapace di scorgerne una: un conto è parlare al passato, sulla cui certezza non si può discutere, un conto è spingersi troppo in là con le illusioni. E, a ben guardare, è proprio questo il punto focale della questione: i siciliani sono bloccati nell’eterno limbo del presente, oppressi dai ricordi e impegnati nella lotta per la sopravvivenza di ogni giorno.

Come biasimarci, del resto? Ogni volta che si è sperato in futuro migliore, puntualmente la svolta ci è stata negata: nella storia siciliana, per ogni Garibaldi c’è un Nino Bixio. E come giudicare, poi, la cronica sfiducia nella politica, ritenuta incapace essa stessa di guardare con lucidità al domani? In questa prospettiva, paradossalmente, il siciliano è l’uomo più incorrotto di tutti, perché non pensa al futuro come gli altri vorrebbero che facesse, non cade preda di facili entusiasmi, non abbandona facilmente il noto per lanciarsi nell’ignoto. Dal momento che le strutture di una lingua sono il risultato della visione dei suoi parlanti, ecco spiegato il trasferimento interiore che ogni siciliano compie verso lo strumento della comunicazione. Trasferimento che, c’è da scommetterci, durerà ancora a lungo: perché siamo fatti così, abituati a focalizzarci su ciò che è tangibile, diffidenti come randagi verso le promesse di cambiamento e critici anche quando il cambiamento si stende sotto i nostri occhi. Siamo, inevitabilmente, figli della nostra storia, orgogliosi di costruirci il futuro passo dopo passo, presente dopo presente.

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