Fino alla seconda metà del secolo scorso, quando qualcuno attraversava un periodo particolarmente sfortunato per uno o più motivi, in Sicilia si iniziava a pensare che avesse una ucchiatùra. Il termine si ritrova per la prima volta nel terzo volume del Dizionario siciliano-italiano-latino del P. Michele Del Bono della Compagnia di Gesù, dedicato al sig. Principe di Campo Fiorito ed edito a Palermo nel 1754, nella stamperia di Giuseppe Gramignani. Il significato attestato è di occhiatura, atto dell’occhieggiare, che fuor di metafora corrisponderebbe a quello conosciuto comunemente come malocchio, inteso appunto come occhio che getta il male.

Se la sua etimologia in dialetto sembra abbastanza recente, stando ai documenti ufficiali, l’origine culturale del malocchio è invece ben più antica, e si è diffusa e differenziata nelle diverse aree geografiche in cui ha attecchito. In Sicilia, in particolare, come riporta Marinella Fiume nel suo Di Madre in Figlia. Vita di una guaritrice di campagna, esisteva una formula da recitare mentalmente quando una donna sembrava osservarci di traverso: «Fèmmiti, fimmina juràta / Ca sì peju d’un serpenti / La to lingua mi la mettu / Mmenzu e denti / Quantu tu a mia nun mi fai nenti», ovvero «Fermati, femmina irata-arrabbiata / Che sei peggio d’un serpente / La tua lingua me la metto / In mezzo ai denti / Così tu a me non mi fai niente».

Nel caso in cui il dubbio di avere comunque preso il malocchio, nonostante gli scongiuri, gli amuleti o altri oggetti utilizzati secondo tradizione, ci si sbarazzava di foto e regali legati a persone con cui i rapporti erano finiti male, per poi lavare casa, macchina e posto di lavoro con acqua e sale, piazzando dei sacchetti rossi con del sale grosso in più punti. Se ci si voleva rivolgere a un guaritore per ricevere un aiuto più serio, invece, bisognava sottoporsi al cosiddetto rito dell’olio. Il guaritore riempiva di acqua un piatto fondo, si segnava tre volte e ripeteva a bassa voce delle frasi previste dalla procedura, che non potevano essere tramandate ma solo “rubate” da coloro che, ascoltandole, le avrebbero capite e sapute ripetere a memoria. Dopodiché, sparso del sale grosso sul piatto, lo si appoggiava sulla testa del soggetto potenzialmente colpito dal malocchio e vi si versavano sopra alcune gocce di olio d’oliva. Se l’olio si allargava o accennava a scomparire, significava che si era sotto iettatura: si buttava via l’acqua del piatto in un luogo poco frequentato, quindi, per evitare di trasmettere l’anatema, e si ripeteva il rito fino a quando le macchie d’olio non smettevano di allargarsi e ci si poteva definire guariti.

Secondo la scienza, il diverso comportamento dell’olio da caso a caso si spiegherebbe considerando l’accuratezza con cui era stato pulito il piatto utilizzato. Se, infatti, la stoviglia è rimasta leggermente unta dopo l’ultimo utilizzo, la tensione superficiale farà sì che le gocce rimangano in una zona ristretta, mentre una maggiore pulizia darà l’impressione che la sostanza si sia espansa di più, per quanto in realtà in controluce la loro espansione nel piatto tenda sempre a combaciare. Questo, però, i nostri nonni stessi spesso non lo sapevano, con la conseguenza che le tradizioni antropologiche legate al malocchio sono rimaste diffuse in molte zone della Sicilia fino a pochi decenni fa.

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