Con l’avvicinarsi del Carnevale, la regione siciliana torna a fare volentieri scialìbbia dopo la breve pausa post-Epifania, che se non ovunque vede grandi festività da celebrare (un’eccezione celebre costituiscono però le giornate dedicate a Sant’Agata, a inizio febbraio, nel capoluogo etneo) può comunque rifarsi a partire dal Giovedì Grasso, fino ad arrivare al martedì successivo.

Così, tornano in tavola grandi classici della tradizione sicula, dalle chiacchiere alla cuddrirèddra del nisseno, senza dimenticare (specialmente a Catania) un celebre primo denominato vampasciùscia.

Si tratta di un abbondante piatto in cui la carne di manzo e la salsiccia di un succulento ragù si uniscono al sapore delicato ma deciso della ricotta, il tutto per condire una particolare forma di pasta, che dà appunto il nome alla pietanza: per figurarcela, dobbiamo immaginare una fettuccina larga pochi centimetri, che ha un bordo liscio e uno ondulato.

Alcuni la chiamano Margherita, altri lasagna riccia o Jolanda, se non addirittura reginetta, reginella o Mafalda, in base alle zone e alle usanze del luogo. C’è invece chi la conosce come tagghiarìna, tripolina o topolino, ma la sostanza è press’a poco la stessa: cambia il nome, talvolta la larghezza, eppure non variano né la ricetta né il gusto con cui di solito la si spolvera appena servita a tavola.

Ed è proprio da questa sua caratteristica che deriverebbe la sua curiosa denominazione, corrispondente in siciliano a una specifica tipologia di farfalla. Come lei, infatti, la vampasciùscia “volerebbe via” dal piatto in un batter d’occhio, e sempre con lo stesso esemplare condividerebbe il suo lato ondulato e sinuoso, simile all’ala di un lepidottero.

Secondo alcune ipotesi, traducendo letteralmente in italiano le due parti da cui è composta, cioè vampa (fiamma) e sciùscia (soffia, inteso come imperativo di seconda persona del verbo soffiare), si capirebbe inoltre il motivo per cui questo insetto è così conosciuto nella Trinacria: nota pure come stuta cannìli (cioè spegnicandele), sarebbe questa una farfalla comune soprattutto nell’entroterra, dove avrebbe l’abitudine di avvicinarsi a fuocherelli o ad altre fonti di luce.

Per proprietà transitiva, a volte anche la specialità culinaria appena descritta viene chiamata stuta cannìli, configurandosi dunque come un piatto tanto amato dalla popolazione nostrana quanto ricco di soprannomi, che ne riconfermano ancora una volta la fama e la diffusione ai tre capi dell’isola…

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