Sì, l’11 settembre mi ha cambiato. Stavo arrivando al World Trade Center con l’ultimo treno quando il primo aereo si è schiantato. Il secondo impatto l’ho visto con i miei occhi e sono rimasto sul posto per raccontarlo. Ancora oggi non riesco a parlare di alcune delle scene a cui ho assistito. Ad un isolato dalla Torre Sud, che nel frattempo iniziava ad inclinarsi, ho iniziato a scappare, detriti si abbattevano tutto intorno a me, nella completa oscurità di una mezzanotte creata dall’uomo. Ne sono uscito ricoperto dai resti della distruzione, una statua grigia ammantata di polvere.

La conseguenza immediata di quel giorno è stata una patologia al cuore – fibrillazione atriale – con la quale continuo a convivere. Per quanto riguarda gli effetti a lungo termine, invece, ho avuto due cancri, una malattia respiratoria e anche una diagnosi di stress post-traumatico legato all’11/9, come certificato dal World Trade Center Health Program. In che modo tutto ciò abbia condizionato la mia famiglia è questione che spetta a loro decidere se condividere o meno; a differenza del sottoscritto, loro non sono figure pubbliche.

Il giorno dopo cercavo vendetta ma mi vergogno di avere creduto alle armi di distruzione di massa e nella tracotante convinzione dell’America di costruire democrazie

Sì, l’11 settembre ci ha cambiati, anche se siamo stati fortunati rispetto ai nostri vicini che hanno perso dei cari così come rispetto alle vittime delle due guerre che ne sono seguite.

Immediatamente dopo l’accaduto ho registrato i miei ricordi dell’evento e in occasione di quasi tutti gli anniversari da allora ho scritto delle mie emozioni, ho messo insieme i ricordi, ho anche composto un sermone.

Man mano che il ventesimo anniversario si avvicinava – un numero che sembra al contempo remoto e vicino – ho cercato, con difficoltà, di decifrare quali sentimenti provassi e quale fosse il loro significato. E così mi sono ritrovato a pensare non tanto all’11 settembre ma alle altre tragedie americane a cui non vengono tributati la stessa sobria memoria e riflessione di quel giorno, e che invece sono diventate pedine sullo scacchiere politico e spettacoli mediatici da cui trarre vantaggi personali.

Penso innanzitutto ai 667.528 morti per COVID-19, almeno fino ad oggi. Il 31 marzo 2020, giorno in cui i decessi per la pandemia hanno superato quelli dell’attacco alle torri – 2.977 – anticipando l’orrore e la tragedia che ci aspettavano, ho avuto la peggiore crisi dall’11 settembre. Dove costruiremo il memoriale al milione di persone – Dio ci aiuti – che potremmo perdere solo in questo Paese, morti quasi tutte evitabili? Il rancore nei confronti degli attentatori dell’11 settembre è lecito, ma ci viene detto che non possiamo prendercela con i politici, con i volti di Fox News, e con la gente comune che contribuisce alle morti da COVID rifiutando di vaccinarsi e di indossare la mascherina con il loro sconsiderato, incurante, egocentrico, illogico, ignorante, insensibile, malvagio disprezzo per le vite di chi gli sta intorno. Invece di assistere ad una seria riflessione, mi trovo di fronte allo spettacolo di una pandemia e delle sue conseguenze ridotte a strumento nelle mani di certi Governatori per rendere omaggio all’era di Trump, a merce di scambio per l’attenzione degli opinionisti, ad arma di distruzione di massa nelle mani di politici e magnati dei media di tutto il mondo. 

L’articolo di Jeff Jarvis apparso sul “The Jersey Journal” all’indomani dell’attacco alle Torri

Penso quindi alle vittime e ai soldati che hanno combattuto e dato la vita nelle due guerre che il mio Paese ha giustificato con l’11 settembre. Il giorno dopo ero arrabbiato. Cercavo vendetta, un’emozione che mi è ancora permesso provare. Al tempo stesso mi vergogno profondamente di avere creduto a George W. Bush e al New York Times, non soltanto sulle armi di distruzione di massa, ma anche sulla tracotante convinzione dell’America nella propria virtù e nel proprio Destino Manifesto di costruire democrazie. Mi dispiace. 

Penso a George Floyd e gli afroamericani che hanno aspettato 400 anni per un movimento guidato dal semplice, autoevidente principio che Black Lives Matter. Dove sono i memoriali in ogni città e cittadina eretti per le vittime della schiavitù, di Jim Crow, della discriminazione e dell’ingiustizia? La Germania li ha eretti in ricordo dei suoi crimini, dei suoi peccati e della sua vergogna. Ce n’è anche uno nel centro di Berlino. Dove sono i nostri? Dov’è la nostra pacata meditazione sul nostro più grave peccato?

Penso allo scorso 6 gennaio, un altro giorno di infamia, anche se quella volta il terrorismo arrivava dal di dentro. Mi sconcerta come siamo riusciti a dar vita a commissioni, leggi, riorganizzazioni governative, anni di riflessione, e guerre per vendicarci degli aggressori dell’11 settembre, eppure non riusciamo a consegnare alla giustizia coloro che hanno ispirato e causato l’insurrezione al Campidoglio. 

Penso alle donne in Texas, private dei diritti sul proprio corpo da uomini potenti e da una Corte Suprema scelta dagli stessi individui che, durante questi anni, hanno sfruttato l’11 settembre per il proprio tornaconto politico. Penso ai trans e alla comunità LGBTQ che soffrono discriminazioni e abusi. Penso ai bambini e agli altri innocenti che ancora muoiono per il folle amore di questo Paese per le armi in quanto malato simbolo di libertà. Penso ai bambini di Flint senza acqua potabile. Penso ai detenuti, in particolare a quelli di colore, ancora in prigione per il reato di vendere qualcosa che è ormai legale da diverse parti, e alle altre ingiustizie che si consumano in quei luoghi. Penso alle vittime di incendi e tempeste, del cambiamento climatico, del disastro di un antropocene di cui ci rifiutiamo di accettare la responsabilità. Penso alle vittime degli oppioidi, della malasanità, dell’avidità.

Oggi rifletto sul dono di essere tra i sopravvissuti ma sarebbe un giorno sprecato se non ne traessimo insegnamenti più profondi

Penso ai vecchi uomini bianchi – lo sono anche io – rimasti avvinghiati al potere e che preferiscono distruggere le istituzioni democratiche piuttosto di condividerne i frutti con chi verrà dopo di loro. 

Sì, in questa ricorrenza, rifletto su come l’11 settembre mi abbia cambiato durante tutti questi anni. Ma penso anche alla nostra incapacità di interessarci con convinzione alle altre tragedie che affliggono la nostra nazione; penso al nostro deficit di riflessione sulle nostre responsabilità e sui nostri peccati; penso alle cause per maggiore giustizia ed equità che passano inosservate a molti tra i miei colleghi nel mondo delle breaking news. L’11 settembre ha finalmente portato tutte le nostre – e mie – mancanze sotto i riflettori. 

Sì, in questa ricorrenza, ricordo sempre chi ci ha lasciati e ringrazio i primi soccorritori, i cui volti ancora ricordo, tra chi ci guidava verso la salvezza e chi correva verso il pericolo. Rifletto sul dono di essere tra i sopravvissuti. Ma sarebbe un giorno sprecato se non ne traessimo insegnamenti più profondi. Rimpiango il fatto che ne abbiamo appresi così pochi.

Traduzione italiana di Francesco Raciti


Jeff Jarvis è professore alla Newmark School of Journalism presso la City University di New York. Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo l’articolo originariamente apparso sul suo blog BuzzMachine.

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