Il mistero del vistèntu,
la parola siciliana
usata dai genitori
con i figli più vivaci

I ragazzini, mandati a reperire questo enigmatico ingrediente, tornavano al focolare sempre a mani vuote, anche se stranamente nessuno ne restava sorpreso o se ne lamentava. Cosa indicava allora questa singolare elemento che sembrava tanto importante, ma che a quanto pare non si trovava mai nemmeno dai vicini?

I bambini di una volta, ormai padri e madri di famiglia, raccontano dell’esistenza di un ingrediente siciliano misterioso. Erano i genitori a nominarlo, chiedendo ai figli ancora ragazzini di andare a domandarlo a qualche vicino di casa. Si trattava del vistèntu, che portava i più piccoli a precipitarsi fuori di casa per aiutare la famiglia e a chiederne un po’ in prestito ai conoscenti di turno. Chi li accoglieva conosceva la dinamica meglio di loro, così li faceva accomodare un po’ nell’attesa.

Con la scusa si chiacchierava, si trascorreva del tempo insieme, e alla fine la frase di rito era una sola: «Ah, vistèntu nun ci nn’hàju, ni virèmu domani» (lett. Ah, vistèntu non ne ho, ci vediamo domani). Perciò si tornava al focolare con le mani vuote, anche se stranamente i genitori non restavano sorpresi e non se ne lamentavano. Si mangiava e si beveva ugualmente, si lavavano i panni e si sbrigavano le faccende domestiche. Cos’era allora quel vistèntu che sembrava tanto importante, ma che a quanto pare non si trovava mai nemmeno dai
vicini?

La curiosa parola del dialetto siciliano deriverebbe dal latino tardo bis tempo, un’espressione avverbiale traducibile con “ci provo una seconda volta” e che indicava quindi una forma di esitazione, di temporeggiamento. Quindi, in verità, si spedivano i bambini alla ricerca del vistèntu nel caso in cui fossero irrequieti, annoiati o troppo vivaci, e non riuscissero quindi a rimanere a casa con le mani in mano. Per dare loro una distrazione – e per assicurare a mamma e papà un po’ di sollievo dalla loro presenza iperattiva – li si invogliava così a rendersi apparentemente utili, andando a trovare i vicini con una scusa.

Questo metodo è attestato nella zona del catanese ed era diffuso soprattutto nei paesini o nelle zone rurali, in cui i divertimenti per i più piccoli talvolta scarseggiavano e i rapporti di quartiere erano intimi al punto da consentire ai genitori di coinvolgere i conoscenti più stretti in una forma di “svago alternativo” per i figli, che al rientro erano sempre e comunque soddisfatti della buona compagnia ricevuta.

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Traduttrice di formazione, nonché editor, correttrice di bozze e ghostwriter, Eva Luna Mascolino (Catania, 28 anni) ha vinto il Campiello Giovani 2015 con il racconto "Je suis Charlie" (edito da Divergenze), tiene da anni corsi di scrittura, lingue e traduzione, e collabora con concorsi, festival e riviste. Ha conseguito il master in editoria di Fondazione Mondadori, AIE e la Statale di Milano, e ora è redattrice culturale - oltre che per Sicilian Post - per le testate ilLibraio.it e Harper’s Bazaar Italia. Lettrice editoriale per Salani, Garzanti e Mondadori, nella litweb ha pubblicato inoltre più di 50 racconti.

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