«Poi una caviglia ha attaccato a prudermi, ma mica me la potevo grattare; e poi si è messo a prudermi un orecchio, e poi la schiena, proprio in mezzo alle spalle. Mi sembrava di morire, se non mi grattavo». Lo scriveva l’autore americano Mark Twain, ma in realtà chiunque di noi ha provato la stessa sensazione almeno una volta nella vita.

Se vivete in Sicilia, però, può darsi che abbiate definito l’irrefrenabile tentazione di grattarvi non tanto come prurito, quanto piuttosto come manciaciùmi. Questo termine dialettale, sulla carta, indica un concetto molto simile al suo corrispettivo italiano, anche se la sua storia etimologica e i suoi significati profondi sono ben più curiosi.

Secondo alcune fonti, infatti, il sostantivo deriverebbe dal francese démangeaison, il quale a onor del vero vuol dire proprio pizzicore, prurito. Niente di strano, quindi, che durante la dominazione angioina la parola si sia diffusa dall’Esagono alla Trinacria, mantenendosi nell’uso comune fino ai nostri giorni, specialmente dalle parti di Messina e di Catania.

Tuttavia, c’è da dire che il manciaciùmi sull’isola è una forma di irrequietezza più ancestrale, una sorta di «solletico incessante nell’anima», come viene ben definito su Letteraemme, trasformandosi dunque in una vera e propria «ansia cosmica che ci divora», talvolta riferita peraltro alla smania sessuale di accoppiamento.

In tal senso, se parliamo di aridità, non risulta strano scoprire che il lemma in dialetto indica anche la siccità a causa della quale il letto di certi fiumi può restringersi nel tempo, facendo così venire in mente una diversa etimologia della parola: mancia ciùmi, ovvero mangia fiume, proprio in riferimento al fenomeno appena descritto.

Nell’uno o nell’altro caso, o magari in una bizzarra commistione semantica a metà tra le due vie possibili, il termine mantiene tutt’oggi una forte carica evocativa, trovando spazio di conseguenza in diversi contesti d’uso e di conversazione.

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