Di recente abbiamo visto in che modo la dominazione asburgica abbia lasciato nel dialetto siciliano un attributo riferito a chi non sa contenersi a tavola o in altri contesti della vita; oggi, con l’avvicinarsi delle festività pasquali, riprendiamo il discorso per approfondire un termine affine, ovvero lafèrnu.

In base alla zona della Trinacria in cui ci troviamo, come spesso accade, possiamo imbatterci in varianti quali lafènnu, lafèrna o lafènna, anche se di fatto il significato non cambia: chi viene apostrofato in questo modo resta un mangione, uno che perfino dopo aver consumato un lauto pasto continua a dimostrarsi avido di cibo.

 Il lemma deriverebbe dal nome del generale assiro Oloferne, di cui si parla nella Bibbia, e che è passato alla storia per avere indetto un lauto banchetto per celebrare la cattura e la conquista amorosa di Giuditta. In realtà, la bella e ricca vedova della città assediata dagli assiri aveva ceduto alle sue avances solo per finta, e gli tagliò la testa appena lui si addormentò per via dell’ubriachezza.

Oltre all’impresa eroica di Giuditta, è quindi rimasto impresso nell’immaginario collettivo il comportamento del generale, che non a caso ha dato vita a numerose altre parole usate ancora oggi nella regione. Un ingordo più ingordo degli ingordi, per esempio, non è un lafèrnu qualsiasi, bensì un lafarnùni, con l’accrescitivo, mentre un lafarnàriu oltre a essere un ingordo può anche dimostrarsi un lezioso adulatore.

Ecco perché la lafarniàta in siciliano è la vanteria, la millanteria, mentre il verbo lafarniàri è sinonimo di adulare e il sostantivo lafarnàrii indica le moine, i complimenti esagerati, come viene spiegato accuratamente anche nel volume La Sicilia dei cento dialetti (Nero su Bianco) curato da Alfio Lanaia.

E così, «se in lafèrna viene colto solo un aspetto del racconto, cioè una caratteristica di Oloferne, nei derivati si colgono altri tratti salienti, che si possono attribuire a entrambi i protagonisti, come la seduzione e l’adulazione».

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