Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, in Sicilia, sono numerose le tradizioni, le iniziative e spesso anche le cosiddette fiere che vengono riproposte ogni anno, a simboleggiare il rapporto con un mondo ultraterreno fatto di Santi, persone care defunte ed entità che si percepiscono ancora in contatto con la nostra vita quotidiana.

Nell’isola, infatti, è grande il rispetto per gli avi e per chi non è più fra noi, così come sono numerose le manifestazioni folkloriche legate a credenze popolari o a usanze religiose, che rendono questo momento dell’anno particolarmente sentito e sfaccettato.

Eppure, considerando che la Trinacria è anche un luogo di contraddizioni e di opposti che convivono, si tratta anche di un periodo in cui si cerca di attenuare la serietà di certi pensieri con l’ironia, con un modo di porsi quasi dissacrante, ma pur sempre rispettoso, e che ci restituisce il ritratto di una popolazione dall’animo profondo e al tempo stesso mai grave.

Esempio rappresentativo di tale tendenza “bifronte” è l’abbondanza di modi di dire, espressioni e termini dialettali associati al campo semantico della morte, che vengono utilizzati non solo in senso proprio, ma anche – e spesso – in un’ottica più goliardica, per esorcizzare appunto la possibile pesantezza d’umore nei giorni che stiamo vivendo.

Ed ecco come si spiega la tendenza, tutta satirica, a rispondere alla domanda «Come ti vedi tra dieci anni?» con una sola parola, secca e dal forte impatto: «Vurricàtu» per gli uomini, «Vurricàta» per le donne, e cioè letteralmente seppellito. Una sistemazione senza dubbio più fresca e comoda, secondo l’ottica dissacrante in cui viene pronunciata, o comunque sinonimo di un altro aggettivo molto amato in Sicilia, ovvero cunsumàtu (it. consumato, ridotto male).

L’etimologia del lemma è presto detta: il riferimento sarebbe infatti al verbo latino volvere, poi evolutosi in volvicare, che significava volgere, voltare, far girare: a livello locale, nel corso del tempo, ha quindi dato origine in base alle zone alle varianti vurvicàri o urvicàri, ma anche bruvicàri, bruvucàri e – come già evidenziato – vurricàri, nel senso traslato di essere rivoltato.

Il sottinteso è nella tomba (‘ndu tabbùtu), ma nella maniera bonaria e leggera con cui viene pronunciata ci si legge, più in generale, un’allusione al pensarsi un po’ ko, pur sempre con la speranza che le proprie previsioni si rivelino meno ottimistiche rispetto alla realtà.

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