In Sicilia, se state tenendo un bambino fra le braccia, il primo aggettivo che userete per descriverlo probabilmente non sarà piccolo, bensì nicu. Così come, in altri contesti, è nicu, o nicùzzu, con un vezzeggiativo ancora più marcato, il cucciolo di un animale, o un problema che non vogliamo presentare a qualcuno in proporzioni eccessive, o ancora il fiore di una pianta o il frutto di un albero.

Nicu, parola piccola e breve anche a pronunciarla, è infatti la definizione-ombrello di tutto ciò che a un siciliano appare tenero, innocuo, piacevole a guardarsi, tutt’altro che minaccioso. Non designa, quindi, soltanto il contrario della grandezza intesa come proprietà fisica di un corpo, ma anche un insieme di caratteristiche che ci fanno percepire il corpo in questione come bisognoso di cura e di protezione, e non ancora giunto al suo massimo grado di maturazione.

Un termine tanto inoffensivo e semplice a dirsi ha, a differenza di quanto si potrebbe pensare, delle radici etimologiche vaghe e complesse. Nonostante le molte teorie formulate sulle sue origini, infatti, poche ipotesi risultano convincenti e attestabili, e fra queste spicca in particolare l’idea che derivi dal greco mikkos (μικκος), variante del dialetto ionico e dorico di mikros (μικρός), cioè per l’appunto piccolo, minuscolo (come ci suggerisce il suffisso micro-, ancora usato in italiano).

La parola, a sua volta, sarebbe un’evoluzione della radice indoeuropea *smēyg-, rintracciabile anche nell’antico inglese smicer/smicor, oltre che nel protogermanico *smikraz. Nei casi citati, non per niente, la sua accezione non era solo quella di oggetto dalle dimensioni ridotte, ma anche e soprattutto quella di oggetto delicato e fragile, e per estensione addirittura elegante, pulito, piacevole a vedersi.

Tutto questi significati, in un universo espressivo sempre in espansione e carico di suggestioni, sono confluiti e sopravvissuti nel dialetto siciliano, dove nicu e nica restano quindi due voci affettuose e multiformi.

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