In Italia si impazzisce, in Sicilia si scattìa. Sembra una differenza da niente, una semplice trasposizione da una lingua nazionale a una regionale, ma la verità è che nella voce del verbo scattiàri c’è, come spesso accade nella Trinacria, una curiosa sovrapposizione di significati, di accezioni confinanti tra di loro, di vere e proprie storie culturali raccontate attraverso una sola parola.

Chi scattìa, infatti, ha un attacco improvviso di follia, come se fosse in preda a un raptus che lo trasforma improvvisamente da così a così, con una sfumatura che quindi l’italiano impazzire non per forza custodisce, e che soprattutto non veicola con tanta forza già nella sua etimologia.

Non per niente, il termine dialettale deriva dal latino parlato exclappitare, che voleva dire in prima battuta scoppiettare. Dall’elemento fuoco al magma della sragionatezza, il passo poi è breve: basta immaginare uno scoppio di altro tipo, un’esplosione mentale più che fisica, e il gioco è fatto. Scattiàri diventa allora sinonimo di scoppiare, addirittura di rompere, e finisce per descrivere l’atto di chi perde repentinamente il lume della ragione e salta come una molla – anzi, sull’isola si direbbe comu ‘nu furgàru.

In base al contesto, la folgore di questa espressione idiomatica può quindi intendersi come un mortaretto, se si vuole descrivere lo scatto subitaneo di chi corre via a gambe levate da una determinata situazione (con valore concreto o metaforico), oppure come un fulmine, se per l’appunto ci si sta riferendo a un lampo di rabbia impossibile da contenere.

Quale che sia il discorso in questione, è innegabile che facendo ricorso al lemma scattiàri si descriva con pittoresca precisione il carattere impulsivo dei siciliani, incarnato fra l’altro con le stesse caratteristiche di imprevedibilità e di potenza dal vulcano più alto d’Europa, che troneggia severo lungo l’orizzonte siculo per ricordare sempre a chi lo circonda la sua anima “di fuoco”…

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