Quale futuro si prospetta per Catania? Quella etnea è la città dei mille volti, con la sua Università fondata nel 1434 da un lato, e il triste primato nazionale dell’abbandono scolastico dall’altro. Sede di un polo industriale importante, leader nella produzione di pannelli fotovoltaici, eppure la stessa città che vede molti dei suoi abitanti vivere ai margini e i più giovani spesso sentirsi costretti a dover immaginare un futuro lontano oppure rassegnarsi all’idea che per loro un posto nel mondo non ci sarà. Alle ultime elezioni regionali circa metà dei catanesi non è andato a votare. E il presidente della Regione, eletto con oltre il 39% dei consensi ha vinto le elezioni senza aver condiviso un documento programmatico chiaro e completo. Cosa dice tutto questo? E come fare in modo che a Catania, in occasione delle prossime amministrative, che si svolgeranno a fine maggio, vi sia una presa di coscienza della popolazione? Parliamo spesso di disaffezione della gente alla politica, ma forse sarebbe più opportuno parlare di totale scollamento. La politica siciliana, tra intrighi, alleanze, decisioni che arrivano dall’alto e una assemblea di parlamentari tra i più stipendiati d’Italia fa spesso capolino nelle pagine dei quotidiani regionali e anche nazionali. Ne emerge una classe politica corsara, spesso indagata (a volte assolta), clientelista. Da dove ripartire dunque?

Bisogna pensare a un modello di società che si metta in ascolto non solo del singolo, ma dell’intera comunità

Pochi giorni fa, nei saloni dell’Arcivescovado di Catania è stato presentato il documento “Un cantiere per Catania”, promosso dal comitato “Non possiamo tacere” (il cui ufficio stampa, chiariamo per trasparenza nei confronti del lettore, è stato affidato alla società editrice di questo giornale) e redatto da “un gruppo di laici cattolici, adulti e giovani, dell’Arcidiocesi etnea”. Al di là delle polemiche sulla presunta (e smentita) nascita di un “Partito dell’Arcivescovo” e sull’appartenenza ad esso di questo o quel candidato sono emersi alcuni aspetti sui quali, forse, varrebbe la pena riflettere. Il primo riguarda un metodo: il documento appena presentato è stato frutto di un lavoro sinergico, e che si è posto in una condizione di ascolto. Non nei confronti delle esigenze di un singolo, ma di una comunità. Una comunità che per definizione è composta da persone molto diverse da loro, per provenienza, livello culturale, età. Accade allora che l’accorato discorso della 23enne Mariachiara Papa del “Progetto Policoro”, invitata a intervenire in Arcivescovado, abbia strappato lunghi applausi. Probabilmente a suscitarli – specie in coloro che anagraficamente avrebbero potuto essere padri o nonni di quella generazione – è stato prima di tutto il suo piglio, battagliero nel recriminare degli spazi negati ai nati nel 2000. Tuttavia la cosa più interessante è stata la chiosa del suo discorso. Ovvero l’appello alla creazione di una società del dialogo che porti a una «città non a misura di giovani, bensì a misura di tutti».

Ripartire dalla consapevolezza che, al di là di colori, appartenenze, alleanze, fede, laicità e perfino ateismo, si può sempre pensare a un nuovo concetto di normalità

Perché se è vero che il solo fatto di non avere i capelli bianchi non crei una “categoria a sé”, ciò di cui la politica si è dimenticata è di ascoltare i bisogni di tutte le parti che compongono una collettività. Lo ha chiarito Mirko Viola (di CittàInsieme e anche lui membro del comitato “Non possiamo tacere”) ricordando da un lato la storia di un giovane di un quartiere periferico che frequenta un liceo sito dall’altra parte della città, obbligato a svegliarsi ogni giorno alle 4 di mattina per potervisi recare con i mezzi pubblici, e dall’altro la morte di un anziano solo in casa, scoperta solo alcune settimane dopo l’accaduto. Come fare in modo che gli invisibili non siano più tali? E come dare loro voce? Sono alcune delle domande che emergono forti da questo documento stilato da parti non sempre e solo ascrivibili all’appartenenza cattolica. L’ascolto della collettività oltre quello del singolo, che troppo spesso la politica ha trasformato in un clientelismo becero. Un punto di partenza, dunque, che però da solo non basta. Perché come ha ricordato mons. Renna, citando papa Giovanni Paolo II, l’altro elemento di cui abbiamo bisogno è una “visione”, che se paradossalmente «era chiara nell’intento di Maria Nicotra, deputata catanese alla I legislatura, nella sua lotta alla TBC», oggi appare deficitaria, e per assurdo quasi secondaria agli occhi di elettori sempre più sfiduciati. Perché la parte più sorprendente della quasi totale assenza di trasparenza sui programmi alle scorse regionali non è stata nel fatto in sé, ma nella totale indifferenza degli elettori. E perfino dei media, cui pure toccherebbe il dovere di verificare su quelle promesse, e che invece si sono spesso concentrati esclusivamente sullo storytelling delle dinamiche politiche, come in una serie TV. Da dove ripartire dunque? Dalla consapevolezza che – al di là di colori, appartenenze, alleanze, fede, laicità e perfino ateismo – la normalità può sempre cambiare. E che forse è arrivato un momento in cui inventarne una nuova, che stavolta possa davvero iniziare dai bisogni di tutti.

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