Pensate a un dessert dal sapore stucchevole e immaginate di cospargerlo di zucchero a velo, per poi inzupparlo in una mousse al cioccolato prima di assaggiarlo. Il risultato che ne otterreste sarebbe un cibo melenso, ma così melenso da diventare quasi immangiabile. Ecco: in siciliano, per esprimere un concetto simile, si userebbe il termine gilèppu (o cilèppu), in base alle zone.

Si tratta di una parola ormai poco utilizzata, ma che fino a qualche generazione fa era molto diffusa fra la popolazione e che corrispondeva, come anticipato, a un sinonimo di zuccherino, di dolciastro, ai limiti del nauseante. E ne esisteva addirittura un derivato, ‘ngilippatu, che potremmo tradurre come ricoperto di glassa.

Ai più attenti non sarà sfuggita la somiglianza di gilèppu con il toscanismo giulèbbe, che non a caso significa sciroppo dolce, così come chi conosce l’inglese potrebbe aver pensato al julep, uno sciroppo utilizzato per alcuni cocktail alla menta, e chi conosce lo spagnolo al polisemico julepe, che anche stavolta fra le altre accezioni include quella di sciroppo.

Di fatto la loro storia è da ricondurre allo stesso sostantivo: parliamo del persiano golâb, ovvero acqua di rose, che è un composto di gul (rosa) e āb (acqua), e che in realtà ha cominciato poi a designare un vero e proprio sciroppo ottenuto dalla cottura di frutta, miele e zucchero, arrivato fino a noi – almeno dal punto di vista linguistico – attraverso l’arabo giulāb.

Di epoca in epoca, di area in area, il termine ha assunto sfumature a sé stanti, finendo per esempio per indicare nella Trinacria tutto ciò che è eccessivamente sdolcinato, al punto da risultare sgradevole, ma allo stesso tempo anche tutto ciò che ispira un senso di bontà e, per estensione, di gioia.

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